A Pasquale Calabrò ordinarono di fare sei nomi. Lui restò indifferente a quel comando, a quella specie d’invito e non si sorprese più di tanto, quasi se l’aspettasse. Nella sua compassata freddezza prese tempo, camminò a passi brevi fino in fondo alla sala, tra le poltroncine di velluto del piccolo cinema, dove lo scricchìo del cuoio degli stivali, sul pavimento rosato di coccio pesto, aveva un timbro equivoco, lamentoso e miserevole, poi si fermò e tornò indietro verso il palco, al fondale a brandelli del giardino dei ciliegi dell’ultima recita, e si accese una sigaretta, una mezza Serraglio, con le mani piccole appena scosse ed un ammiccamento nervoso delle palpebre porcine come unico indizio di smarrimento e d’inquietudine. Con il piglio del sorvegliante, appoggiato alla ribalta, scrutò la platea in assoluto silenzio.
Rimase immobile per qualche istante poi, con la manica della camicia, s’asciugò il sudore dalla fronte e cercò sollievo alla calura avvicinandosi alle pale di un ventilatore appeso al soffitto, con gli occhi guizzi e neri come olive e una pelle tostata, dalle fattezze minute, grifagno ed indecifrabile, sembrò aver perso, per un attimo, l’irruenza del fare, le sue maniere spicce, tacque e guadagnò ancora tempo. Guardò in faccia, ad uno ad uno, gli uomini che gli stavano davanti, incrociò i loro sguardi, forse cercò un segno, un cenno d’intesa, una smorfia indulgente, un’occhiata di spregio, qualcosa che l’aiutasse nella scelta. Improvvisamente, come gli capitava in certi accapigliamenti furiosi, abituali della sua indole, sbottò parole incomprensibili nel suo dialetto da solfataro, sputò in terra, e chiamò prima Ugolino e poi Rotildo. Lo fece d’istinto, quasi a liberarsi di un peso, e senza un motivo apparente scelse quei due uomini, seduti, in prima fila, uno accanto all’altro con le facce tinte di nero. Pasquale Calabrò, senza più dire una parola e con un’insolenza oltre i limiti, li affidò con gesti apparentemente malaccorti ad un confidente con le braghe corte ed un curioso kepì sulla testa. Uscirono, subito, dal cinema, scostando i velluti purpurei che celavano un piccolo varco, spalancato sul vicolo.
A Pasquale Calabrò ordinarono di fare dei nomi. Avrebbe dovuto scegliere ancora quattro persone, tra gli uomini che lui conosceva da tempo, padri cresciuti oppure i loro teneri figli, erano stati amici, compagni con le lampade ad acetilene, con i polmoni avvelenati dalla stessa polvere di ferro respirata nel buio delle gallerie, rivali con i fazzoletti rossi al collo, scioperanti o crumiri, provocatori travolti dagli eventi, schierati da una parte per convenienza, inconciliabili e perduti in un labirinto di dubbi e di mezze verità.
Il tenente, alto e sottile, immobile al centro del palcoscenico con le mani sui fianchi, cominciò a dare segni d’impazienza. Accigliato, urlò qualcosa di velenoso - una stoccata che zittì all’istante il timido brusio della sala - nella direzione di un suo scagnozzo, un molle caporale dai capelli rossicci che sembrò non aver capito, nella visibile perplessità di una maschera stranita.
Allora il tenente, ancor più torvo ed infastidito, si avvicinò ad un tavolaccio messo a cavaliere sulla buca del suggeritore e, da una cartella lucida di pelle, trasse un fascicolo scomposto di carte, fogli ingialliti e veline dattiloscritte, raccolte da un nastro nero. Consegnò al caporale dai capelli rossicci una specie di lista. Iniziò, così, un altro appello di nomi.
Baffetti Inaco, Banchi Eros, Barabissi Renato, Basarri Emilio… cadenzò monocorde il caporale nella crudezza del suo accento straniero, senza mai rialzare, neanche per un attimo, lo sguardo dalle pagine che teneva tra le mani, con un fare di ottusa sufficienza, come se la chiamata non avesse avuto alcuna rilevanza se non quella di una vana litania di nomi, un artificio concertato per allungare un’attesa, per rimandare di qualche ora un compimento ormai certo.
Cicaloni Mario, Cicaloni Eugenio continuò spedito il caporale. A sentire quel nome, Pasquale Calabrò che aveva seguito, con comprensibile interesse, lo scorrere ossessivo della conta, gli si avvicinò. Ci fu un parlottio nervoso e soffocato, vicende personali, la memoria di un episodio inconsistente, cresciuto nel livore.
Sembrò che Pasquale Calabrò si fosse deciso a rivelare il terzo nome. Ma fu solo un abbaglio. Incollerito, con uno spintone, ricacciò Eugenio in mezzo agli altri e bestemmiando cose indicibili andò a sedersi accanto a suo cognato, un certo Nucciotti, una faccia truce, che teneva un fucile da caccia a tracolla e munizioni a pallettoni dentro una frusta cartucciera.
Quel pomeriggio parevano più spente le pareti ingessate del piccolo cinema, più acciaccati i tessuti, scialbe le povere luci, mentre un taglio di sole rabbioso, attraverso gli scuri accostati, annunciava l’estate, liberava un pensiero, una voglia, l’idea di una sposa in attesa, di una madre che soffre al di là delle mura, al villaggio di scorie e lamiera, sbiancava un vespro infinito… Pieri Camillo, Pieri Nivo, Ricci Dino, Rosati Duilio… un rosario recitato nell’ombra, nell’aria scolpita di polvere greve.
Pasquale Calabrò, ad ogni nome, con un lieve movimento del capo e un sogghigno come di malcelata compiacenza, dava l’impressione di assecondare la lista e confabulando mezze parole con il cognato - indifferente e minaccioso - si batteva, a martello, un nerbo di bue sul palmo incallito, quasi a scandire il tempo, la dolorosa metrica di un requiem.
Eppure, nella mente di Pasquale Calabrò, tra le pieghe idiote e fanatiche della sua meschina ragione, nella penombra della sua dottrina - dinnanzi a quegli uomini, complici e raccolti, disarmati, al centro del cinema, nella loro incomoda posizione, senza colpe né meriti, diventati, nel giro di una notte, prim’attori da semplici comparse - qualcosa, un frammento di vita, una storia, un momento, avrà pur illuminato, anche solo per un istante, i suoi ricordi, le sue memorie assopite, i chiaroscuri della sua anima.
Al villaggio si arrivava per una strada polverosa, dove la salita era più aspra, una successione di curve brusche ed arrischiate, tra cumuli di pietra e scoscesi sterrati, dove prima crescevano i noccioli selvatici, e una fettuccia d’asfalto correva tra le case - a blocchi di tre, quattro piani - povere e scabre di cemento grigio, tra cortili inghiaiati e qualche magro orticello.
In alto il villino del direttore e poco più in basso gli alloggi degli impiegati, e ancora più giù, come casermette a file lunghe e strette, i camerotti dove abitavano quelli giovani, ancora da maritare. Ci arrivò anche Pasquale Calabrò, il barbagialla, dalle miniere di Girgenti, quasi dieci anni prima. E divise con Nazzareno, Gustavo, Marsilio, castagnai dell’Amiata e tanti altri ancora, il provvisorio di quei tempi, il labirinto delle basse gallerie, il profondo dei pozzi, delle discenderie, l’anonimato di un accampamento, cresciuto tra poderi avvizziti, che non aveva storia, né memoria.
Il caporale arrivò, sfinito, alla fine della conta e chiamò, storpiando malamente i loro nomi, Testi Nazzareno, Torlai Gustavo, Travaglini Marsilio e ancora Vagaggini Osvaldo, Veneri Bosio, Vetuli Luigi, Vicarelli Ugo.
Poi, nel piccolo cinema, si fece silenzio. Un silenzio di pietra e di notte.
L’impressione fugace, di un attimo, che un colpo di vento cattivo, avesse spento, improvviso, tutte le lampade dei minatori e li avesse dispersi nel buio, come intrappolati nel dedalo nero dei cunicoli, costretti al limite estremo delle gallerie, nel fragore dell’acqua e dei carrelli correnti sui binari, in cerca di vita, di salvezza, di giustizia, urlanti la propria innocenza, le stesse grida imploranti delle loro donne e dei loro bambini nella calca all’imbocco della miniera.
Il tenente attese qualche istante, quasi annoiato davanti la platea, che il caporale gli rendesse i fogli della lista, quindi, impettito nella sua divisa, mostrò, ancora una volta, una perfidia ossessiva e cieca. Chiese al barba gialla di fare gli altri quattro nomi, così che avesse scelto quattro uomini da liberare, quattro vite da salvare, poi accusò, feroce, i minatori, chiusi da un giorno e da una notte nel piccolo cinema di Castelnuovo, di essere di parte, pericolosi sovversivi, rossi di cuore e d’intenzione.
Pasquale Calabrò incontrò, per l’ultima volta, gli sguardi perduti degli uomini, di quella gente che aveva, segretamente, odiato, infido e insinuante com’era, e in modo così palese condannato al loro destino.
Barbagialla non disse nulla, non pronunciò altro nome e uscì, di fretta, dal cinema, con il sole sul tramonto, e Nucciotti lo seguì, in silenzio, a testa bassa.
Da uno stradello aspro di sasso, tra papaveri e lecci, dove le fumarole soffiano al vento vapori di zolfo, nel mareggiare lontano dei castagni sui monti, tra i rovinacci delle antiche torri, si arriva ad un vallino isolato, di roccia bianca e arbusti.
Ancora oggi si odono raffiche secche di mitragliatrice e di morte e gemiti, ansimi e pianti di orfani e vedove. Si vedono corpi ammassati, tinti di rosso e di polvere, e luci leggere nel buio che vanno e poi tornano.
Castelnuovo Val di Cecina, 14 giugno 1944
Eccidio dei minatori di Niccioleta
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