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testi

MASSIMO VIGANO'
"Ore delle colline pisane
N(u)ove improvvisazioni"


(pensiamo) la vita è stata (e sarà) giornata e geografia
sempre nostra prole ottusa e muta di parole
che del tempo sfogliano asprezze e rotondità geologie
e fontane (vite) e animo ombre e luci silenzi
che dilatano tra i battiti d’un santissimo frullo sospesi di sensi e sonni


lode del mattino (il buon risveglio)

è giorno finalmente è giorno come segna la stella
mattutina allora (diciamo che) ogni giorno
da mattina s’impregna dei corpi lavati
e svelati di nuova luce che versa (con l’ombre)
liquida tra i lecceti e nel vecchio acquaio
in pietra (per egual motivo) insieme all’acqua
        che trasuda e dalle balze seguita a chiamare
        dopo il fiato ogni mattino il primo tocco è alla terra
timorosi come siamo per saggiarla e dar presenza ai nostri piedi
(quasi di legno questi fradicio
impillaccherato della mota colta su’ sodi
instancabile che posa la notte coi sonni )
sicché fuori subito è tregua già che pesi
in tanta attesa poggiano crudi i piedi
su terra svestita e tiepida riavutasi appena
        nell’incessante
        risveglio
noi che di terra abbiamo succhiato da sempre viviamo succhiando
acqua e latte (come vitigni) e cose e persone e pensieri
        (pentimenti) e incanti
lattanti da svezzare noi (come capretti marzolini
        affannati su’ la piaggia dietro le madri cieche
tra i filari) quando nuovamente scampata la notte ci s’addentra nel giorno
come fosse la terra pane (che dal vespero rafferma sul tavolo
        tra gl’avanzi del desinare e gl’odori vecchi del giorno
        trascorso e il guanciale) magari
accompagnando ad ogni passo
un morso ovvero voce che renda corpo al mondo e corpi sicché c’approntiamo a ritraversare
dapprima incerti la terra inabitata a misurarne
i confini (sognati) e ancora a segnarne
in sogno il quotidiano destino e interminabile
        il nostro tempo battendo
                (a tempo)


(ufficio de) la lettura cartografica

a volo dall’alto qui è un’ampio foglio
ora un cencio che di queste parti fa il volto
e di terre impresse
nella polvere sanguigna dei colli
        o dalla stessa decalcate (strato su strato)
        nella linea chiara del maggese
e credi fanno l’immagine che vedi il segno che muove
nella terra incredulo e insegna
sì che s’accolga con luce ed aria
sulla crosta mutevole del pane
che sfama e insieme (sciocco) svela
come siano corpi infilati i colli di cristi
che vestiremo e sazieranno (imprecando)
di speranze colma come sarà la sera d’ombre
ovvero quando saranno i timori (di certo concimi
        e tremori)
sfamati (noi) dal veduto e nient’altro
        avremo ma immagini
ove c’inabissiamo per sapere il perché
        (qui) il quando e il dove
(sor)ridenti e (con)segnati a noi stessi avvinti
        com’edera ai nostri (afflitti) torsi (che sono)
        tronchi ritorti fitti nella creta de’ colli
o sulla viva (e vermiglia) che crudele si mostri
carne e incuta apprensione e innocenza
        e leggerezza sperdute


la partenza (lode mattutina)

lenti ogni giorno in terra col sole
scegliamo dove principiare – che sia
partenza e insieme che detti passi
e pensieri e il percorso – così
come si sceglie un porto o la casa
da lasciare e poi tornarci (sempre
si torni e non sia di nuovo un andare
un muovere da oppure
        verso)
e dove? dove ci lasceremo noi
cade’ (quasi) o anda’ (meglio) svenuti
nel mezzo a tanta apparenza
tra le braccia del paradiso (che sappia a balia)
ovvero l’inferno o almeno si conceda limbo
per l’anime tra gl’ulivi lucenti e un tempo forse
prestavamo i corpi e le risa
all’appetito di questa contrada
        (e si cerchi il seno anche senza fame
                per sempre)


ora media III (il fiume e il mare)

malgrado la terra sia ovunque
sembra acqua attorno (persino l’aria)
con il fiume che trattiene (remoto) e chiama
        in superficie (il verso segreto riecheggia
nei volti che attendono e rivelano le spire
        d’ogni ansa – e son molte
        che fanno corona laggiù sul fiume – ad ogni ristagno
        per dire guardate com’è il viso)
altra luce di quassù al piano getta brevi ombre
e riceve visioni inganni a volte
quanto l’aria concede
ma a guardarci (attraverso)
il mare (quanto) è lontano
nascosto dietro quel ventre di terra
dove s’affonda e da cui lo sguardo
umido emerge e discreto tra i brevi
respiri del fiato rotto dell’acqua che da sotto preme
        per venir fuori in campo
                aperto come stendardo
ma di dove siamo il mare (ovunque)
sembra che accoglie un corpo terricolo e rosso e sacrilego
        beato senza cullarlo
senza cullarlo piuttosto se ne resta lontano
velando gli occhi celando il (con)fine
a chiunque da terra la terra contempli (perché? è peccato?)


ora media VI (visione del piano)
in uno dei (molteplici) respiri
dati sull’orlo di questa visione
(trasognata e distante un tiro di sasso
dalla lieve pancia amorosa e amata – come diciamo
        della santissima terra)
(su) qui beve l’anima (magari addentando la parte d’una
qualsiasi carne che si lavori per cavarne frutto) perché
questi toscani come siete immersi tra colli e mare
a codesta dieta adusi
che sappia di carne e del destino che ceda
alla lingua uno spirito caparbio di sale
e di sangue che descriva il vostro viso
esatto al mondo e a voi lo cancelli nella vampa
del giorno che restituisca il padre
insomma o vi mostri il volto e di che polpa
siete di che segni parliamo
quali le lingue che frequentiamo


ora media IX

alti fanno comparsa (que)gl’uccelli
(strani per l’entroterra) che sono
richiami inviati da’ pesci (muti) del mare
e sono gabbiani affamati
e voraci (da tanto son profondi) ma sanno di dove vengono
e ci gridano (forse) di lassù addove andranno

da loro sfugge la terra sotto il mare
ricomparirà (magari) altrove dietro
la curvatura segreta all’orizzonte
dove più ampio sia il mare e ignoto
che sfoghi pure col suo antico
fiato (ricomposto nel limpido liquore
        sconfinato)
e tolga aria ai tantissimi terragnoli nella chiudenda
alle lodole che mi insegnino volando le porte da aprire
i sentieri dove andare le logge da serbare e le scale da scendere
domani e salir le liquide finestre cui affacciare
        ogni sera prima di sciogliere i legacci
        e posare occhi e bocche (ormai quietate)


lode serale

né pianta né chi irriga ma noi siamo il campo (sterminato e circolare) e siamo qualunque cosa perché dormiamo e svegliamo e sogniamo parole e la lingua che dice la mano che segna i piedi che traversano insonni
ed io
non sono più e son muto non sono muto e sono eppure noi s’è mutati


compieta

siamo tornati figli e ingenui
a far del sonno un caso
governato dall’incanto
al torso rinato (nel canto
nel riso scentrato nell’incauto pianto
di gioia e d’ansia) che posi ogni sera
e rinnovi allora il giorno accanto ai corpi
(e piedi e braccia e busto) dal silenzio resi
a (con)segnare mappa di sé
ch’è d’ogni esistenza (di)segno
e piuttosto badi a muovere (sempre) sotto le linee del sole
sotto la luna e nel sonno vasto
        sillabando
                insonni
la terra e la sua geografia (ch’è nome)