dai tempi sempiterni della chiusa
qualcuno si avvicina al depistaggio
cullando nella notte un lumicino:
era qui (senza misura, nell’anfratto)
che dormiva la nera littorina.
e persino si può tanto: fermarsi
camminare tra le lucciole e le porte
e violare la casa al ferroviere.
***
(quando bambino voleva giocare ovvero delle voci)
è stato (ormai) un peccato d’adempienza
chiudere un occhio mentre l’altro appena
chiedeva di affacciarsi al finestrino
di modellare gli sbalzi degli sbuffi
scansare fermamente il terrapieno
allungare una mano sui sedili
e saggiare la sostanza del suo legno:
assecondavi il treno come un mare
muovendo tra le onde la campagna
e quella cagna che sempre recitava
la scena di una figlia senza eguale.
c’era la guerra sul collo dell’amiata
o nella testa di abbadia san salvatore,
ai piedi senza scarpe discendevi
e la tua scorta lentamente cigolava.
*
eppure qualche cosa ci esitava
ci rendeva più duri del carbone
più rossi del rosso del cinabro:
era la gola secca, era la vecchia
rincorsa sulle forre. tutto è fermo –
il campanile serrato nelle volte
la chiesa con la faccia disegnata
il riccio e la castagna decurtata:
«mamma quando vieni per la tosse?»
e fischiava, oddio come fischiava, roco
con quelle mani bianche di giacinto.
ma poi ti prese su la provvigione,
la provvidenza sazia del tuo prete:
partisti con il rischio dei cipressi
che vaghi ci allungano la morte.
*
la radice della pianta ha un nome antico
come quello delle donne sulle porte
con cui passa la notte il ferroviere.
*
i passi (anche i tuoi) sono le rotte
di un breve lievitare sul cammino:
«sai, c’erano qui due grosse botti
per l’acqua, per il pane, per il vino
e dio ci sorpassava in comunione –
ci doppiava col suo alito salino».
ed erano bocche nere, magre bocche,
calzari sempre uguali da pitocco:
«ecco, lo sai, la terra trema
sfiora l’eco nei lobi degli indiani».
ed era duro un palmo nella crosta
quando l’altro ti battevi sulla bocca
recitando la disfatta del fortino.
***
(l’invidia dei pochi ovvero la riserva)
è la storia questa di un bambino
che sognava un treno da sognare
un babbo dall’aspetto militare
le rogge di una moglie sempre aperta
e la deserta magione dietro l’asso.
*
rotola ancora, si arrotonda infine la svolta
del fiume, la corrente vetrosa del torrente
si specchia di travi e di cimase:
«i tuoi capelli sono un piccolo tetto,
questo è il mio fischietto, soffia, guarda,
attenta, chiudi bene il portellone,
allaccia sulla nuca il fazzoletto.
ciao mamma ti saluto spesso
(tra gli avanzi di patate e polpettone)
ti saluto fortemente con la mano
sulla strada tortuosa, verso asciano»
*
ora batte a colpi lenti, mi riprende
la giacca, la camicia, il temporale:
«oggi pioveva e la blusa zuppa
l’ho lasciata in un canto al focolare.
dentro, la missiva che aspettavo
ossa rotte di pernice, una cornice d’oro
e tracce di finissimo catrame …
ho passato l’esame a ferroviere
sono l’unico capo di stazione,
qualcheduno mi crede macchinista,
ma la berretta mi comporta distinzione»
*
carrozze di duroni, spigoli e calli
di frumenti spigolati alla motrice
dai convogli sparpagliati sulle crete:
in una scena da far west, lo sparo
il frullo disperato del fagiano
i cani e la vagina al cacciatore.
dietro l’anta dell’armadio il cassettone
sullo specchio il nonno che sorride
mentre piazzano le bombe dei settanta.
*
«col tempo sai è cresciuta, è fatta grande
la città ahimè pasciuta, è fatta grande:
una citta con le trecce da birbante
è l’unico ed immobile passante»
*
«la riduzione del moto pendolare
ci costringe a chiudere la tratta»:
e ora dove vai vecchio brigante?
con la valvola briga del tuo cuore
la marsina in pectore, il puttino biondo
la tua croce che dimora sulla mensa?
(monte antico – asciano, 27 settembre 1994)
***
(il finale ovvero costruire una vita per frammenti)
sulla scala pende ancora la tua fossa
la ressa dei piccioni sulle travi
la valigia riversa sopra il letto.
partivi anche tu come la mamma
tenendo la destra, sul sentiero
col grande polverone di vettura.
interrotto appena – un clic – l’interruttore
dimoravi lì la cantinetta, il paralume
e tra la polvere pendula esitavi
i resti avanzati della cena, senza vena
sentenza o sola delibata soluzione:
pensavi appena più oltre siena, l’ospedale
il dottore dalle lunghe mani e ultimo
il prelato, l’olio santo, la catena
e l’incessante mutevole ossessione
di una vita destinata a sparizione.
***
ogni tocco sa quello che vuole
in questa mano di vernice impressionista:
masochista è la scelta del mondo –
del secondo più lento da narrare.
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