contattaci
torna alla home page
testi

AZZURRA MANGANI
La Luna


Giuseppe aprì gli occhi per primo. Dalla finestra sentiva i rumori del mare - onde zaffiro si infrangevano sopra le scogliere, sotto le cicale - e riconosceva gli odori aspri della ginestra e del rosmarino. Luglio esplodeva - anche dentro di lui -: una strana emozione lo spingeva a non sprecare tempo, a rifiutare feste e discussioni di politica. Fremeva di passione. Gli importava solo la sua solitudine: buttarsi giù dal letto ogni volta prima del giorno, e ogni volta cercare.
Si alzò e si vestì come un animale selvatico; mise la benda al suo posto, prese la cassettina portastudi e una lampada, e uscì. Non una luce rischiarava la notte stellata, se non la sua.
Da Castiglioncello a Caletta c’era poco più di un chilometro verso sud, percorrendo la strada maestra in direzione di Vada e delle Colline Metallifere. Non incontrò anima viva mentre camminava. Si sentì, finalmente, libero di tacere, riconosciuto dalle bestie notturne, accompagnato dal vento fra i pini. Quella natura crudele e maestosa lo avvolgeva, ed era una sensazione mai provata prima, carica di desideri primordiali.


1.

La baia di Caletta era deserta - e al mistero orientale somigliava, forse -, dimenticata dai pescatori. Giuseppe osservava e non distingueva oggetti, solo variazioni tonali.
Cominciava appena ad albeggiare, alla sua sinistra, mentre il gozzo di ieri era ancora appoggiato al suo bastone, coperto da una tela logora. Il mare, in accordo, era calmo: si spezzettava, placido, sulle rocce e sulla piccola punta, chiamata la Luna.
Aspettò. Il paese gli si svegliava intorno, ma niente lo toccava se non la tavolozza e gli oli da diluire, e quella striscia di macchie di cui aveva decretato l’ultimo giorno di lavoro. Alla fine, non avrebbe avuto che un quadretto modesto, impossibile da vendere. Aspettò ancora. Una volta trovata la giusta posizione - il momento esatto -, tese la mano destra e caricò le ultime pennellate, come un fucile in una delle sue passate battaglie: colpire sempre, con precisione. Non era più frastornato dagli amici e dal chiasso, la sua energia convogliava tutta nel medesimo punto, proprio nel marrone seppia che gettava ombre sull’ocra, nel mare fiordaliso - così fragile - e nelle innumerevoli sfumature del cielo.


2.

Giuseppe aveva fama di essere un uomo serio e taciturno, che pensava e leggeva più degli altri, e che approfittava di qualunque occasione per farsi domande. Anche quel giorno, aggiustando il lavoro, cominciò a riflettere sulle questioni dell’arte: si dibatteva intorno alla Macchia, alla strada che la sua pittura aveva preso, e alla miseria di dover comunque eseguire studi d’interni - i chiostri di Santa Croce, San Miniato al Monte, le cripte - pur di guadagnare poche lire. Tirando le linee irregolari di Caletta, correndo dietro alla luce mutevole, aveva abbandonato le vecchie regole del colore e il trattato della pittura di Leonardo da Vinci, la correttezza di Raffaello e la grazia del Correggio. Perciò, ancora una volta, sedutosi a riposo su uno scoglio, e credendo finita l’opera, aveva giurato: mai un quadro liscio e freddo, senz’anima e senza rilievo; mai uno studio del vero basato sulla forma. Gridare, piuttosto, ai quattro venti, e ai professori che l’avrebbero preso a calci nel sedere, che la forma non esisteva affatto. Ogni panorama che la Toscana gli aveva offerto - le Porte Sante, San Gimignano, l’Arno alle Cascine - era semplice colore, e così emanava la sua bellezza. Tuttavia, per quanto perdesse la testa dietro a un bianco in ombra su di un cielo grigio, non riportava a casa che il solito quadretto, elogiato dagli amici e scartato dalle gallerie, che lo riduceva alla fame. Quella considerazione lo fece sorridere: invecchiando diventava lagnoso... Ogni tanto gli capitava persino di piangere dall’unico occhio rimastogli.


3.

Una volta, diversi anni fa, qualcuno gli aveva chiesto cos’era la vita, e lui, correndo da Napoli a Venezia per studiare, aveva gridato beffardo: un continuo girar di coglioni.
Da allora, erano accadute tante cose. Sua sorella Giulia era morta di tubercolosi e lui non aveva potuto essere avvertito che molti giorni dopo, con una missiva. Da sua madre, e dalle sorelle rimaste a Venezia, non poteva tornare: bandito dal Lombardo-Veneto, pena l’arresto. La benda sull’occhio destro gli ricordava sempre che il conto di Garibaldi e del patriottismo non si esauriva con un mancato funerale. Aveva combattuto coi Mille al Volturno, era stato ferito e trasportato all’ospedale di Napoli; poi, ad agosto dell’anno prima, era corso ad imbarcarsi per la disfatta dell’Aspromonte - salvo per miracolo grazie ai livornesi - ed era tornato svuotato. L’aveva fatta finita con l’unificazione: troppi intrighi, troppo disfattismo. Gli italiani, se esistevano, certamente dormivano.
Non aveva voluto né la medaglia al valore, né la pensione come reduce. E quel Garibaldi dei due mondi, con la sua camicia rossa - di sangue -, sul suo cavallo bianco, in mezzo alla mischia, non gli era sembrato, certe volte, neppure vero, neppure di carne come tutti quanti loro...


4.

La Toscana, ormai annessa col Plebiscito, gli aveva regalato una pace inaspettata. Il calore delle persone lo rilassava, la generosità di Diego e degli altri amici del Caffè Michelangelo gli dava conforto per le sue vicende quotidiane, di cui raccontava poco o niente. Se ne usciva sempre la mattina presto e passeggiava a lungo nelle campagne, rientrando per lavorare su un quadro di interni; leggeva per alcune ore e poi cenava con altri artisti e studenti, finendo ogni giornata sui libri, oppure immerso in difficili problemi di scacchi.
Gli pareva che quella terra di monumenti, dove era più selvaggia, fosse capace di ascoltarlo in silenzio, di sopportare il suo umore cupo; dove era più viva, nelle città moderne, di fornirgli stimoli, idee e sogni. Era la sua casa: Giuseppe, in fondo, era uno che beveva acqua, pur di non gravare sull’oste.
Eppure, certi giorni, era sicuro che la vita gli sfuggisse, e così il senso della pittura. Vita e luce erano eternità - si confondevano - e creazione, insieme unite e inafferrabili.



Un gran rabbia lo percorreva da cima a fondo; ripose i materiali a casaccio, piegò il quadro, lo guardò e poi vi rinunciò per sempre. Camminare - tornare indietro - gli avrebbe fatto bene, un passo dopo l’altro, e a gran falcate, accaldato, la testa che gli scoppiava, tirò un sospiro profondo e stabilì: cercare altrove.
Più a nord, si snodava un sentiero che tagliava tutta la boscaglia fino al mare. Ormai era giorno fatto, e la gente del posto si occupava dei propri affari. Giuseppe, come al solito, non vide nessuno in particolare, e continuò a scendere, imperterrito, fino al Botro della Piastraia. Lì, finalmente, si fermò.
Il ruscello scorreva nella terra desolata, strozzato da pietre e cespugli, che ne coprivano la foce: andava sinuoso e scompariva, poi riemergeva e si gettava nel mare. Sulla colline riconosceva la cascina dei Buoncristiani da una parte, e il villone Berti dall’altra. Avrebbe voluto dipingere subito - la luce cambiava -, invece non poteva far altro che mandare colori a memoria: bianco di zinco, crema, pesca, ambra e oro; rosso vermiglio, cadmio, sabbia e ruggine; e infine cachi, bistro, rame e terra di Siena.
Era davvero troppo stanco per ricominciare daccapo, e senza una tela adatta, ma l’occhio sinistro già brillava. Immobile su quella pietra, in verità correva già dietro al tempo, e cercava il taglio e la disposizione delle pietre, la trasparenza dell’acqua, l’inclinazione delle ombre e la morbidezza dei riflessi. Il quadro si formava per istinto mentre si chiedeva se non fosse vano qualunque sforzo; non riusciva a ignorare la sua velocità, imparava per contraddizioni, soffriva in silenzio, aveva guizzi di gioia.
Eppure, in qualche modo, la durezza di Castiglioncello temperava il suo spirito: Giuseppe dimenticava se stesso e non sentiva più niente, se non una vaga - struggente - nostalgia di Firenze.


6.

A quel punto aprii gli occhi. Caletta era invasa di vita, rimbombava di voci, e abbagliavano ancora il calore di luglio e le scaglie di luce sul mare.
Rimasi ancora un po’ sullo scoglio del porto, davanti al paese - bestia selvaggia prima - ora completamente addomesticato: la passeggiata era stata rivestita di marmo, il Botro della Piastraia seppellito nel cemento, e frotte di persone si accalcavano dentro bar e ristoranti, oppure negli stabilimenti balneari.
La Baia di Caletta - rimasta incompiuta - e la Marina a Castiglioncello di Giuseppe Abbati, così come le avevo viste al Castello Pasquini, certamente erano scomparse. Qualcos’altro, invece, era rimasto: un giorno d’inverno di molti anni fa, mio padre mi aveva portato su una scogliera e mi aveva detto che si chiamava la Luna. Le onde grosse entravano fra le fessure ed esplodevano, e io saltavo di pietra in pietra immaginando un allunaggio salmastro, e mari della tranquillità pieni di pesci.
Quel particolare mi avvicinava in qualche modo a Giuseppe, a ciò che aveva visto e sentito, e lo stesso faceva quell’uomo di Livorno, magro e abbronzato, che si metteva a dipingere a cavalcioni del muretto di Caletta. Veniva quasi tutti i giorni. Il sole picchiava, ma lui non si muoveva di un passo finché non terminava il lavoro, e, sotto l’ombra del cappello, aveva occhi brillanti, sempre fissi verso il Tirreno.