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SUSANNA PIETROSANTI
Giro di tempo

 

È primavera – prima primavera – in questa parte della Toscana, così stupita del suo fiorire che riesce addirittura a farci credere che potremmo vivere per sempre, quando sappiamo benissimo, io lo so benissimo, che non si può… Il giardino e l’oliveta si gonfiano di verde – posso distinguere i groppi dei fiori di melo incipienti – le faccine appiccicose e pallide delle prime primule – il ritorno della primavera…
Certo che qualcosa ritorna. È una vita che lo aspetto, che il tempo faccia il suo giro, che giri a cerchio, e che ritorni – da dove tutto è finito, e io lo sapevo, in quel momento me lo dicevo: è la fine – questa è la fine… ritorni là da dove mi è toccato – ho dovuto – non ho saputo evitare di – ricominciare…
Era Roma, quel giorno – i mille campanili zampillavano nel succo dolce del tramonto – Roma che ti piaceva, me lo avevi detto mille volte, “vedi Ferruccio? Se hai fame in Toscana te la tieni, a Roma, tutti, anche i più poveri, ti si aprono subito: hai fame? E magna…”e ridevi, la tua risata che finiva in un colpo di tosse – e concludevi nella leggera carezza nascosta, la tua carezza mia, le dita a riportarmi indietro i capelli dalla fronte…
Era Roma allora, ma era stata Siena… Siena acciambellata a chiocciola intorno al nucleo protettivo del Campo, Siena bianca e nera nel gioco geometrico dell’alternanza, io ci sono nato e non ne sapevo nulla, o meglio sì, qualcosa sapevo, il gusto delle albicocche rubate dall’albero dell’orto del vicino, o il morso del breccino sulle ginocchia nude, ma poi sei arrivato tu – il tu di allora – rivedo il tuo viso, ora così lontano, allora tanto vicino che non lo distinguevo davvero – il tu di allora a portarmi via – affondare gli artigli nelle mie spalle come l’aquila di Zeus fece suo Ganimede, e Siena diventava un’altra nelle tue parole – “civitas super montem posita non potest esse abscondita…è vero? Però c’è il mantello della Madonna tutto intorno a Siena. Lo vedi, coi tuoi occhi? Guarda la tua piazza del Campo: è proprio la Madonna che apre il suo mantello…”.
Lo vedi coi tuoi occhi? Mi chiedevi. No, proprio no. Era coi tuoi occhi che vedevo. Vedevo coi tuoi occhi – da allora ho cominciato a vedere coi tuoi occhi – e quando si sono chiusi per sempre, i miei sono rimasti vuoti. Asciutti, secchi, opachi, senza raggi. Tutta la mia vita è stata un occhio, lo so. Sottile senza te – prima di te, dilatata e umida quando poteva contenerti, e poi, di nuovo, un rigo esile, che, sulla tempia, si perde… Ho cominciato subito a vedere coi tuoi occhi, da quel giorno lontano nel tempo quando sei entrato dall’ antiquario dove facevo il tuttofare, il ragazzo di bottega: spazzavo il pavimento, spolveravo, lucidavo qualche pezzo di scarso valore, andavo a mezzogiorno alla trattoria vicina a prendere il pranzo del padrone… Sei entrato, quel giorno, con la grazia calma di chi non ci crede davvero, hai fatto un giro obbligatorio tra gli oggetti esposti, mi hai guardato, coi tuoi nebulosi occhi azzurri, io ho guardato te, ho provato a strofinarmi via il sudicio dalle mani, le ho nascoste dietro la schiena, tu hai sorriso, io volevo scappare, “no”, hai detto tu, “come ti chiami? Chi sei? vieni qui, vieni a parlare un po’ con me…”
Così mi hai portato via. Molti hanno detto, dopo, che mi avevi comprato. La guerra, la grande guerra, la prima, era appena finita, Siena era dissanguata, nella mia famiglia il più piccino, il più sacrificabile, ero io, e i tedeschi, si sa, diceva con disprezzo mia madre, saranno sempre quelli di una volta. Se è stato così, nessuno più di me voleva che tu mi comprassi, e che la trattativa andasse a buon fine: e quando sei andato a parlare a mia madre per ottenere il permesso di portarmi via con te, io fuori della porta nel vicolo tremavo di apprensione, toccato da mille onde di angoscia, la prima era la paura, la paura della possibilità, io che avevo tre punti di godimento nella vita ed erano il rumore della pioggia, l’odore del fritto e un desiderio terribile di quello che non conoscevo, sapevo che stavo per partire per un lungo viaggio e avevo paura, non ne sapevo nulla e avevo paura, ma l’altra paura era più terribile, che la partenza non partisse, che l’inizio non iniziasse, che la risposta tacesse, che di nuovo il vuoto si spalancasse. E quando sei uscito e ti sei fermato un momento sulla soglia, e hai esitato a parlarmi, il mio desiderio e il mio bisogno erano così forti da diventare un groppo delle viscere, un dolore intestinale: “va bene”, mi hai detto,” Ferruccio, allora vieni via con me”, e io ti ho detto “no, ora no, non posso, devo andare in bagno”, e sono scappato dentro mentre tu ridevi, cattivo sì, ma così dolce, la mia prima, la mia ultima dolcezza… 
Un mostro, un molestatore di ragazzini, cos’altro poteva essere il principe Giorgio Wittelsbach, sacerdote di Santa Romana Chiesa, di più, protonotario apostolico, che un giorno d’estate intravede il suo destino nel viso di un ragazzino in una bottega umida di Siena e poi lo compra a peso e lo porta via con sé? Gli dà tutto, lo protegge, lo plasma, lo fa crescere, ma qualcosa da lui, certamente, prende – ecco qua la corona di spine… Signori della corte, però io, la vittima, sono anche il principale testimone, e io, la vittima, non conosco questa persona che voi dipingete. Certo, era molte cose. Era il principe, sicuramente, al mattino, in vestaglia di seta con la caffettiera d’argento davanti. Era l’uomo colto nel pomeriggio, quando si chiudeva in biblioteca, e leggeva i filosofi del suo paese e i padri della chiesa. Era l’alto prelato, certo, alla sera, quando con disinvolto ritegno attraversava i saloni del Vaticano e danzava il minuetto della mondanità politica e rabbrividiva sottilmente quando il papa lo omaggiava con un nuovo paralume di pelle di somalo. Era padre Giorgio quando, con i suoi francescani, aiutava i malati all’ospedale dei poveri, li medicava e sosteneva con la tranquillità e la padronanza di chi ha visto e affrontato decine di ferite di arma da fuoco. Perché molto altro era stato, prima di apparire nella mia vita, nel suo personale giro di tempo: il combattente valoroso, decorato con la croce di ferro, il marito problematico, incapace di concludere la sua stessa luna di miele, il principe dorato che il nonno imperatore prediligeva….Ma per me era tutto, e non aveva nome, e per quanto lontano mi fosse, potevo sempre intravedere il suo cuore, una farfalla stanca dalle ali azzurre, pronta a lasciarsi prendere dalle dita che tendevo, quanto pronto a farmi prendere ero stato io. Perché volevo vivere. E vedere attraverso i suoi occhi. E sentire il respiro che gli schiudeva le labbra sulle mie non lo rendeva altro, per me, che il donatore…Quello che ritenete un mostro, signori, mi prese in braccio per la prima volta quando io andai tra le sue braccia, mentre si trovava in quella terra di nessuno che sta tra la stanchezza e il sonno e io gli scivolai addosso, era quasi notte, nascosi il viso contro la sua camicia e feci finta di dormire. Per molto tempo, se lo avvicinavo di giorno, lo facevo in altri modi. Tra le braccia gli andavo in quel suo crepuscolo, quando osservavo le palpebre farglisi pesanti e tremolare, come trascinato a mezz’acqua altrove – e spesso contro di lui mi addormentavo anch’io…
Chi ti accoglie così, non può non volerti  proteggere per sempre…    
Poi, - era il maggio del 43, tiepido e mutevole - un giorno come ogni altro giorno – sì: è inutile cercarli: li ho cercati mille volte: non c’erano, non c’erano segnali – hai deciso di morire. Non so perché. Non so se volevi. Non credo. Il seme di morte fu il contagio, un virus minuscolo e letale, penetrò in te mentre assistevi i tubercolotici senza prudenza come sempre facevi, ti fece una guerra segreta, e vinse. Vinse tanto bene che nulla servì a nulla. Non la smettevi di morire. Nulla riusciva a farti smettere. Non il tuo medico che tentava ogni rimedio che conosceva, non le preghiere che salivano tra le volute dell’incenso, non i mormorii dei poveri che ti amavano, non l’immobilità bloccata di tutta Villa San Francesco che ti ascoltava sputare sangue. Non la smettevi di morire. Te la vedevo galoppare sotto la pelle del viso, la morte, aggrovigliarsi sugli zigomi, depositarsi in groppi nella trachea, scottarti nelle dita, la vedevo colonizzarti, un centimetro di più, un gesto di più, un respiro di meno, no, non ti dicevo, no, non cedere, non te ne andare, smettila, accidenti, smettila. Ma non la smettevi, non hai smesso di morire, non ce l’hai fatta o non volevi, e a un certo punto i tuoi occhi sono spariti, arrovesciandosi verso l’interno, verso l’infinito che stava dietro le tue palpebre chiuse, il sangue si è cancellato dietro le tue unghie bianche e ogni candela si è spenta da sé, perché non vedevi più, e io sapevo bene che, dopo poco, così poco, tempo, neanch’io ti avrei, mai, più – visto.
Il tempo che avevi attivato non si è fermato. No, neanche lo spazio. Il giro che avevo cominciato l’ho continuato. Solo diversamente. Il tempo ticchettava, un’auscultazione avara e ritmata come il saltellio dei passeri nella neve. Non si apriva più. Nulla a che vedere con lo splendido, esteso arco di cerchio di Siena sui colli, aperta come la mia bocca meravigliata di te. Nulla a che vedere con l’irreprimibile zampillare dei campanili romani nell’aria della sera, quando la fatica della giornata sul tuo viso diventava una calma composta che era per me una mai concepita nostalgia di desiderio. Il tempo friniva rauco come un grillo, e io ho continuato.  Non avevo mai saputo che sarei stato in grado di farlo, ma lo sono stato. Carico dei mille doni della tua eredità – non mi avevi lasciato solo – sono tornato in Toscana, stracciato vagabondo che poteva coprirsi con gli zibellini dei Wittelsbach, se voleva – ho trovato una donna da amare, l’ho portata con me, la vita è andata avanti, qui nella campagna piena di linfa che oggi ribolle nella primavera, la vita ha proseguito così sottilmente, così intensamente, che mi accorgo che sta andando via, oggi, e non l’avevo neppure sentita passare, e che io fossi perduto nel tempo fermo, che avessi perso il mio proprio tempo,  non se n’è accorto nessuno, non me ne sono accorto neppure io...
Non volevo accorgermene. Né di questo né di altro. Volevo vivere, sì, ma come era possibile  – un amore nuovo, un amore che non potesse tirarmi il collo, che per abitare sull’altra faccia della luna non potesse farmi male nel ricordo, un amore a cui darmi solo in parte, o solo in una mia parte, non la tua, non la tua – e vivere. Soli, io e lei, senza figli. No, non voglio figli, le ho detto. Non voglio trovarmi nelle condizioni di dover amare uno stupido, un cretino, se mi nascesse. Non so se fosse la vera ragione. Non mi ero accorto di non saperlo. Non mi ero accorto di nulla – chiusi i tuoi occhi, chiusi i veri occhi della mia vita, e tu – ora, ancora? Sono notti che ti sogno, giorni che ti penso. Strano, dopo tanti anni. Ti eri ritirato indietro, sottilmente, come un’onda che arretra lenta sulla battigia. Che c’eri io lo sapevo, anche che potevo vederti. In quello mi sbagliavo: ho sempre potuto vederti. Potevo estrarre una delle tue immagini sicure dalla collezione di istantanee che avevo dentro e riportarti a me in qualsiasi momento, certo che potevo. Ma, in qualche modo, ti avevo disinnescato. Quando scivolavi da me, come un ladro, non mi sorprendevo. Ti salutavo come un caro amico aspettato per il tè. Era naturale che continuasse, come che ci fossero fuoco e acqua, vento e terra, che ci fossi io, e che ci fossi tu. Ma nelle ultime notti, invece, hai deciso tutto da solo: quando apparire, come, quanto male farmi, quale doloroso viso indossare, quantum mutatus ab illo…Perché?, mi sono chiesto. Non stai più in riposo? Non vorrai dei fiori sulla tomba, proprio da me? E se no, che altro vuoi?  Stamattina, presto, sono le ultime ore della notte, e ti sogno di nuovo. Cammini, da solo, in una delle dodici stradelle che, me l’hai spiegato tu, si avviano al Campo come alla città celeste dalle dodici porte. Ti vedo benissimo. Indossi un cappotto leggero, grigio, cammini senza fretta, non vedo il tuo viso, so bene che sei tu. Ad un certo punto il selciato di Siena diventa improvvisamente acqua, una lunga pozza d’acqua ferma che tu superi senza paura, senza neppure sollevare i pantaloni sulle caviglie. Di là, ti fermi, scopro che ti sto seguendo perché ti vedo girarti a me, in qualche modo mi vedo riflesso nei tuoi occhi, e mi dici: “vieni, forza. Ti sto aspettando…” “No”, rispondo, “non posso venire, ho paura…” Ridi brevemente: “ Was weibt du denn schon uber Angst? cosa ne sai della paura?”  “Tutto”, grido, con rabbia dolorosa,” tutto…” “ No”, replichi tu.” No. Nein. No…”e questa è la tua ultima parola…
Mi sveglio, sbarro gli occhi di botto. Sei tornato? Perché proprio adesso? Potrei averti diventando un altro? O ritornando me stesso? Che cosa vuoi da me? Sei tu che mi hai lasciato – non sei tornato mai – e ora cosa vuoi? No?  – e allora…
Roma, quella notte, bruciavi di febbre e io avevo nelle mie la tua mano ancora viva, e lo pensai, certo che sì, che non avrei mai potuto vederti morto, che non avrei mai sopportato la tua lontananza, la tua inconsapevolezza di me, mai. E invece, pochi minuti dopo, c’eravamo. E invece per così tanto tempo proprio io, proprio tu…No. No? Inutile dire no…
Sono uscito di casa per raggiungere l’orto, ho anche preso la zappa per fornirmi un pretesto, sono diventato vecchio, molto più di te quando mi hai lasciato, camminare è un’impresa oggi, non so perché – non capisco che fine ha fatto la disciplina, o il carattere, che mi ha portato avanti per tanti giorni, per tante ore. Penso al crepuscolo, l’altroieri. Mia moglie è di là in cucina a preparare qualcosa. Voglio piantare qualcosa, ora, subito. Mi ricordo di aver piantato qualcosa ieri, a quest’ora, con questo tempo, anche se non ricordo che cosa piantavo. Mi prende, però, improvvisamente, una spossatezza così violenta che devo sedermi, subito, piegare le gambe, con la fretta di un innamorato che si siede accanto all’amata sulla panchina... Non ho mai conosciuto niente di simile a questa spossatezza. Mi prendo la testa fra le mani, e provo a contare. Non so farlo, non saprei numerare i giorni, i mesi, gli anni che sono stato vivo, quelli in cui ero con te, e mi amavi, e neppure l’arco teso della mia vita dopo, il ritorno a Firenze, la fuga in campagna, il matrimonio e l’isolamento, ora dove siamo, ora dove sono? Non più nell’orto, non da solo – Roma, a tavola con te.  Sei in giacca nera, in abito da sera, posso calcolare il calendario del nostro rapporto dall’infittirsi di rughe all’angolo dei tuoi occhi.  Abbiamo un ospite a cena, subito dopo dobbiamo partire, tornare in Toscana finalmente, e io voglio, voglio partire, così tanto che comincio a contare il numero di cucchiaiate che gli ci vogliono per finire il dessert. Deve prendere il caffè e spero che faccia presto. Non fa in tempo a finirlo che mi alzo, per segnalargli che deve andarsene. Forse tu sorridi? Per l’infrazione all’etichetta, per la mia dichiarata impazienza? Non lo so. So benissimo che mi aspetta quanto voglio, il viaggio, la partenza, come mi aspettano ventotto passi dal tavolo al divano, dove posso strapparmi dal collo la cravatta, e finalmente crollare – sentire la terra tra le labbra, l’erba sotto la guancia e  la tua mano, di nuovo, nella mia.