contattaci
torna alla home page
testi

ROBERTO VECCHIONI
Canzoni e scritture


Attenzione: clicca sui titoli delle canzoni per ascoltarle e vederne un video!

"Samarcanda"


C’era una grande festa nella capitale
perché la guerra era finita.
I soldati erano tornati tutti a casa e avevano gettato le loro divise.
Per la strada si ballava e si beveva vino, e
i musicanti suonavano senza interruzione.
Era primavera e le donne finalmente, dopo tanti anni, potevano
riabbracciare i loro uomini. All’alba furono spenti i falò
e fu proprio allora che tra la folla,
per un momento, a un uomo parve di vedere
una donna vestita di nero
che lo guardava con occhi cattivi.

Ridere ridere ridere ancora,
ora la guerra paura non fa,
brucian dentro il fuoco le divise la sera,
brucia nella gola vino a sazietà,
musica di tamburelli fino all'aurora,
il soldato che tutta la notte ballò
vide tra la folla quella nera signora,
vide che cercava lui e si spaventò.

“Salvami, salvami, grande sovrano,
fammi fuggire, fuggire di qua,
alla parata lei mi stava vicino,
e mi guardava con malignità”
“Dategli, dategli un animale,
figlio del lampo, degno di un re
presto, più presto perché possa scappare,
dategli la bestia più veloce che c'è”.

Corri cavallo, corri ti prego
fino a Samarcanda io ti guiderò,
non ti fermare, vola ti prego
corri come il vento che mi salverò
oh oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh

Fiumi poi campi poi l’alba era viola,
bianche le torri che infine toccò,
ma c’era sulla porta quella nera signora
stanco di fuggire la sua testa chinò:
“Eri tra la gente nella capitale,
so che mi guardavi con malignità,
son scappato in mezzo ai grilli e alle cicale,
son scappato via ma ti ritrovo qua!”

“Sbagli, t’inganni, ti sbagli soldato
io non ti guardavo con malignità,
era solamente uno sguardo stupito,
cosa ci facevi l’altro ieri là?
T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda
eri lontanissimo due giorni fa,
ho temuto che per ascoltar la banda
non facessi in tempo ad arrivare qua.

Non è poi così lontana Samarcanda,
corri cavallo, corri di là...
ho cantato insieme a te tutta la notte
corri come il vento che ci arriverà
oh oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh

"A. R."  

La miseria di una stanza a Londra
le fumerie di Soho:
già grande si buttava via.
E sua madre nel fienile, nel ricordo:
vecchia, scassata borghesia.
Ribaltare le parole, invertire il senso
fino allo sputo,
cercando un’altra poesia.
E Verlaine che gli sparava e gli gridava:
“Non lasciarmi, no,
non lasciarmi, vita mia...”
E nave, porca nave vai
la gamba mi fa male, dài
le luci di Marsiglia non arrivan mai.
“Un hydrolat lacrimal lave
les cieux vert-chou, les cieux vert-chou
sous l'arbre tendronnier qui bave vous cautchous...” 
Portoghesi, inglesi e tanti altri uccelli di rapina
scelse per compagnia;
quella voglia di annientarsi, di non darsi,
e basta, basta poesia;  
e volersi fare male al punto di finire, lui,
mercante d’armi
fra l’Egitto e la follia,
e una negra grande come un ospedale
da aspettare
e poi la gamba e l'agonia.
E nave, porca nave vai,
ho freddo e manca poco, dai,
le luci di Marsiglia non arrivan mai.
Ho visto tutto e cosa so?
ho rinunciato, ho detto “no”,
ricordo a malapena quale nome ho:
Arthur Rimbaud, Arthur Rimbaud,
Arthur Rimbaud...

"Canzone per Alda Merini"

Noi qui dentro si vive in un lungo letargo,
si vive afferrandosi a qualunque sguardo,
contandosi i pezzi lasciati là fuori,
che sono i suoi lividi, che sono i miei fiori.

Io non scrivo più niente, mi legano i polsi,
ora l’unico tempo è nel tempo che colsi:
qui dentro il dolore è un ospite usuale,
ma l’amore che manca è l’amore che fa male.
Ogni uomo della vita mia
era il verso di una poesia
perduto, straziato,
raccolto, abbracciato.
Ogni amore della vita mia
ogni amore della vita mia
è cielo è voragine,
è terra che mangio
per vivere ancora.

Dalla casa dei pazzi, da una nebbia lontana,
com’è dolce il ricordo di Dino Campana;
perché basta anche un niente per essere felici,
basta vivere come le cose che dici,
e di vederti in tutti gli amori che hai
per non perderti, perderti, perderti mai.

Cosa non si fa per vivere,
cosa non si fa per vivere,
guarda... Io sto vivendo;
cosa mi è costato vivere?
Cosa l'ho pagato vivere?
Figli, colpi di vento...
La mia bocca vuole vivere!
La mia mano vuole vivere!
Ora, in questo momento!
Il mio corpo vuole vivere!
La mia vita vuole vivere!
Amo, ti amo, ti sento!

Ogni uomo della vita mia
era il verso di una poesia
perduto, straziato, raccolto, abbracciato;
ogni amore della vita mia
ogni amore della vita mia
è cielo è voragine,
è terra che mangio
per vivere ancora.

"Euridice"

Morirò di paura
e venire là in fondo,
maledetto padrone
del tempo che fugge,
del buio e del freddo:
ma lei aveva vent'anni
e faceva l'amore,
e nei campi di maggio,
da quando è partita,
non cresce più un fiore ...
E canterò,
stasera canterò,
tutte le mie canzoni canterò,
con il cuore in gola canterò:
e canterò la storia delle sue mani
che erano passeri di mare,
e gli occhi come incanti d’onde
scivolanti ai bordi delle sere;
e canterò le madri che
accompagnano i figli
verso i loro sogni,
per non vederli più, la sera,
sulle vele nere dei ritorni;
e canterò finché avrò fiato,
finché avrò voce di dolcezza e rabbia
gli uomini, segni dimenticati,
gli uomini, lacrime nella pioggia,
aggrappati alla vita che se ne va
con tutto il furore dell’ultimo bacio
nell’ultimo giorno dell'ultimo amore;
e canterò finché tu piangerai,
e canterò finché tu perderai,
e canterò finché tu scoppierai
e me la ridarai indietro.

Ma non avrò più la forza
di portarla là fuori,
perché lei adesso è morta
e là fuori ci sono la luce e i colori:
dopo aver vinto il cielo
e battuto l’inferno,
basterà che mi volti
e la lascio nella notte,
la lascio all'inverno...

E mi volterò
le carezze di ieri
mi volterò
non saranno mai più quelle
mi volterò
e nel mondo, su, là fuori
mi volterò
s’intravedono le stelle.

Mi volterò perché l’ho visto il gelo
che le ha preso la vita,
e io, io adesso, nessun altro,
dico che è finita;
e ragazze sognanti m’aspettano
a danzarmi il cuore,
perché tutto quello che si piange
non é amore.
E mi volterò perché tu sfiorirai,
mi volterò perché tu sparirai,
mi volterò perché già non ci sei
e ti addormenterai per sempre.

"Le lettere d'amore"

Fernando Pessoa chiese gli occhiali
e si addormentò
e quelli che scrivevano per lui
lo lasciarono solo
finalmente solo...
Così la pioggia obliqua di Lisbona
lo abbandonò
e finalmente la finì di fingere fogli
di fare male ai fogli... 
E la finì di mascherarsi dietro tanti nomi,
dimenticando Ophelia
per cercare un senso che non c’è
e alla fine chiederle:
“scusa se ho lasciato le tue mani,
ma io dovevo solo scrivere, scrivere
scrivere di me...”
Le lettere d'amore,
le lettere d'amore
fanno solo ridere.
Le lettere d'amore
non sarebbero d’amore
se non facessero ridere.
anch’io scrivevo un tempo
lettere d'amore,
Anch’io scrivevo un tempo lettere d’amore
anch’io facevo ridere;
le lettere d’amore, quando c’è l’amore,
per forza fanno ridere.
E costruì
un delirante universo senza amore,
dove tutte le cose
hanno stanchezza di esistere
e spalancato dolore. 
Ma gli sfuggì che il senso delle stelle
non è quello di un uomo,
e si rivide nella pena di quel brillare inutile,
di quel brillare lontano...
 E capì tardi che dentro
quel negozio di tabaccheria
c’era più vita di quanta ce ne fosse
in tutta la sua poesia;
e che invece di continuare a tormentarsi
con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna,
rispondere a uno sguardo... 
E scrivere d’amore,
e scrivere d’amore,  
anche se si fa ridere;
anche quando la guardi,
anche mentre la perdi
quello che conta è scrivere.
E non aver paura
non aver mai paura
di essere ridicoli;
solo chi non ha scritto mai
lettere d’amore
fa veramente ridere. 
Le lettere d’amore,
le lettere d’amore,
di un amore invisibile;
le lettere d’amore
che avevo cominciato
magari senza accorgermi;
le lettere d'amore
che avevo immaginato,
ma mi facevan ridere
magari fossi in tempo
se avessi ancora il tempo
per potertele scrivere...

"I colori del buio"

Uscivamo dal mare e tu
già correvi con l’asciugamano:
“su bambini, venite qui,
svelti, subito che ci asciughiamo”;
ma in un mare più grande
già sentivo mia
la tristezza cantata dagli uomini
per non buttarsi via.
Un alunno del tempo è solo
in una frase di una sola parola,
come una stella non segnata in cielo
o un orologio che non sa mai l’ora;
e mio figlio era lì così pallido,
così bello fra tutti quei camici
con l’uomo ragno in mano:
ma perché te ne vai, dove vai,
con chi mai farai l'amore?
A chi darai la bocca, i baci
i morsi al seno, i nostri tuffi al cuore?
Poi si è voltato mio padre
e c’era tutta Napoli a salutare,
e ho chiesto scusa a un amico
di come ho fatto a fargli tanto male…
Chiudere gli occhi e vedere
tutti i colori del buio;
chiudere gli occhi e rivedere
tutti i colori del mio buio.

E tu che sei passata
e che ti sei fermata
col tuo filo d'argento;
e tu che mi sei nata
e che mi sei cresciuta
andando controvento;
il mio cane che è steso sul tavolo
e mi guarda e lo sente che è l’ultima,
l’ultima volta insieme;
ma perché te ne vai, dove vai,
con chi mai farai l'amore?
Cosa racconto ai ragazzi
domani a scuola
in tutte quelle ore?
E tu dall’alto dei cieli
che mi vorresti come un pescatore
in questa notte infinita
che ho appena appena forza di cantare…
Chiudere gli occhi e vedere
tutti i colori del buio,
chiudere gli occhi e rivedere
tutti i colori del mio buio.

Da “Di sogni e d’amore”

Autoritratto

Quando un uomo si crede fuori del tempo
perché ha perduto l’orologio
è un poeta;

quando al parroco
chiede
che il campanile non batta
i quarti d’ora
contro i diritti delle undici e venti
è un poeta;

quando si stropiccia nelle pieghe del cielo
recapita alla sua anima
in pacchi dono
per un sorriso di vetro
ad ogni ricevuta

quando grida dove il silenzio è più forte
quando inventa quello che gli altri hanno scoperto
quando ama quando il silenzio è più forte

quando
muore
dove il silenzio è più forte

quando un uomo
con dieci fiori vincenti
in mano
dichiara tre picche
giuro
è un poeta.

Palinodia

Calò
la piana gioia
del tamburo battuto

l'aria s'estingue,
mio Dio,
la voglia di gridare
mi s'incespica in gola.

Oscuro sogno
è in me
l'essere vivo

come
al gioco del domino interrotto,
come la notte se improvvisa
mi sveglia
la luna tra le dita.

Mi giungerai

Dalle vie di betulla entro i cortili,
al solitario perdersi dei buoi
dietro la curva; oltre la sassaiola
rovinata a valle, nel vivo
dei mattini mi giungerai

di nuovo parleremo col respiro
mozzato dei vent’anni,
nel tuo spento sorridere che amavo,
mi mostrerai i tuoi figli.

L’inizio di “Scacco a Dio”

La prima volta si presentò vestito da pittore rinascimentale.
– Chiudi la porta e vieni dentro, – disse.
– Ma qui non c’è porta, – rispose Teliqalipukt.
– E tu fai finta che ci sia e chiudila.
Sistemò tavolozza, tele, colori, cornici e sgabello in bell’ordine e tirò un sospiro divino.
– E perché non pompiere, usuraio, guardia svizzera o, che so io, giocatore delle tre carte? – ironizzò Teliqalipukt.
– Taci, Teliq, è una cosa grossa, è una cosa grave: tu non puoi immaginare nemmeno lontanamente perché sono qui.
– Illuminatemi con la vostra sapienza.
– Sto male.
Teliqalipukt lo guardò. Doveva ridere o prenderlo sul serio? E come prendere sul serio uno che ti si presenta in velluto cachi e cappello a sbuffo, e comincia a far schizzi a carboncino mentre annuncia una catastrofe? E poi come doveva chiamarlo? Dio? Signore? Voi? Ella? «Capirà se gli dico: si accomodi, si sfoghi, il bagno è di là?»
Con Dio aveva sempre avuto contatti di natura eterea: si trasmettevano attimi d’estasi senza mai vedersi, così come si deve tra puri spiriti. Ma ora le cose cambiavano: cosa ci faceva Lui lì, nel tempo, camuffato da Bernardino Luini? O era il Mantegna?

Teliqalipukt era un immortale: Dio l’aveva scelto ab origine per vigilare sul mondo, per entrare di soppiatto nella vita degli uomini e guardare, osservare, capire, senza interferire col loro destino, coi loro propositi; e lui, di uomini, ne aveva conosciuti e seguiti a centinaia, a migliaia, nei secoli, fino a scoprire come cambiavano, cosa volevano, sapevano, speravano, fino a misurarne le miserie e i colpi d’ala, sempre presente quando sbagliavano, quando cadevano, attento al loro stupore infantile davanti alle scoperte, ai loro versi millimetricamente imperfetti nel dire gli orli della solitudine e l’esperienza della luce. Era uscito dalla misura degli angeli; aveva assistito alla nascita della geometria, letto il primo libro, sentito sbuffare la prima locomotiva, visto Edison accendere una città intera, i fratelli Wright alzarsi increduli sulle loro ali di legno e poi... e poi...
Ancora quella stretta al cuore che non lo lasciava in pace: i suoi ragazzi, i suoi piccoli immortali! Da quanto non li vedeva? Da quanto non erano più con lui?
– Voi non potete stare male, Signore: dev’essere qualcos’altro, che so, un ritorno di pensiero, una stasi d’immortalità; ma che dico, è impossibile! Cosa... cosa vi sentite?
– Un infinito vuoto, una specie di nausea astrale, un sottosopra, una gran voglia di rompere tutto e ricominciare da capo.
– Piano, piano! Andiamo con ordine. Innanzitutto cosa ci fate qui, vestito in modo così ridicolo?
– Ridicolo? Io adoro il Rinascimento. Be’... diciamo che è una necessità, Teliq: non potevo certo sciorinarti quel che ho sul gozzo e ascoltare le tue prediche come puro spirito. Non esistono consigli e contraddittorio tra spiriti. Ci vedi, noi due, a chiacchierare per sospiri e lampi di luce? No, dovevo in qualche modo entrare nel tempo: nel tempo si possono usare i pensieri e le parole, come fanno gli uomini. Così, già che c’ero, mi son tolto lo sfizio di interpretare i ruoli che mi piacciono di più. Però, c’è un però, anche così non riesco a star fermo, non mi lascia questa fregola di creare –. E lo si vedeva bene: in dieci minuti aveva già dipinto venti nature morte e una pila di ritratti: particolarmente riuscito un Giuliano de’ Medici pugnalato in Santa Maria del Fiore con i Pazzi che fan finta di niente.
– E questo è chiaro, – riprese Teliqalipukt. – Ma cosa c’entro io in tutto ciò?
– Gli uomini, Teliq: nessuno conosce gli uomini meglio di te.
– Voi, Signore!
– Credevo, ma devo averli persi un po’ di vista negli ultimi tempi.
– Diciamo pure dall’inizio.
– Adesso mi sembri esagerato: io ho indicato loro in tutti i modi la strada da seguire, e non avevo dubbi sulla riuscita: sono o no a mia immagine e somiglianza?
– Qui sta l’inghippo. A immagine forse, benché sian molto più belli di voi; a somiglianza, lasciatemelo dire, neanche un po’. Quanto alla strada, mi pare che abbiate fatto un po’ di confusione.
– Ma se ho perfino mandato mio figlio!
– E perché l’avete mandato?
– Oh bella, perché sapessero che non li avrei mai abbandonati!
– Sbagliato!
– Sbagliato cosa?
– È stata una correzione, Signore. E una correzione significa che avevate commesso un errore e volevate porvi rimedio. Ma voi non potete correggervi!
– Io ho solo voluto chiarire, insomma spiegare meglio quello che non riuscivano a capire.
– Il Vangelo è stato un atto di debolezza, una zappa sui piedi: voi dovevate dire ogni cosa nell’Antico Testamento. E che? Non c’era più spazio nelle tavole di Mosè? Lo si trovava: vi sembra un comandamento «Non desiderare la roba d’altri»? E che desidero? La mia? Sapete cos’è successo? Ve lo dico io: «Scusatemi, scusatemi, avete presente quella storia che se mi ciechi un occhio io cieco il tuo? Si scherzava, non è vero, anzi, bisogna farsi ciecare pure l’altro»! Vi sembra credibile?
– Be’, però il Vangelo ne ha avuto di successo!
– Una grande operazione di marketing, Signore: un bel mix di immagini strappalacrime e promesse elettorali. Un vero trappolone: «È vostro il regno dei cieli». Vedete del cielo, voi, qui intorno? Il cielo è tutta quella roba inutile laggiù in fondo che avete riempito di stelle: non sapete più che farvene! E vogliamo parlare di Maometto?
– No, no, lì ho sbagliato a non troncare subito, ma ne ho sottovalutato la portata. Io avevo in mente qualcosa di universale, per tutti, ma gli uomini si dividono in popoli e un popolo lo fai su facile se gli dici che da lassù si briga solo per lui. I popoli non guardano oltre il proprio cortile e sanno essere cattivi come i bambini sulla spiaggia: «Questo secchiello è mio, la paletta pure». E allora ecco premi eterni concessi solo alla loro tribù, conventicola, ecco il divino a proprio uso e consumo, il Paradiso esclusivo vista mare.
– Se lo dite voi.
– Sì. Ma piantiamola con la teologia, Teliq, ché tanto non ci siamo tagliati. Il mio problema non è questo: il mio assillo è che mi sembra di perderli.
– Gli uomini?
– Oh, non tutti, ma forse proprio quelli a cui tengo di più. Sembra quasi che lo facciano per farmi dispetto: arrivati a un certo punto è come se spegnessero la stella che li guida, come se s’incidessero un’altra linea della vita sulla mano. No, non parlo di peccati, quelli son minuzie: dico il loro cammino, il corso del loro destino. Hanno un solco da seguire, un viaggio da compiere e improvvisamente lo cancellano, lo resettano, vogliono essere altri da sé; stropicciano le loro anime fino a rendersele irriconoscibili, si ribellano alla felicità. È come se in un’immaginaria scacchiera non accettassero più le diagonali di un alfiere, i salti di un cavallo, le rette di una torre, cioè le regole che conducono a quell’unica suprema bellezza che è il fine, e la fine. Non vogliono, non vogliono più: i cavalli escono dalla scacchiera, le torri volano in alto, i pedoni ripercorrono i propri passi, e in questo delirio, in questo gioco stravolto, ingannando lo spazio e barando con il tempo, spacciano ’sta falsa libertà per uno scacco a me, uno scacco a Dio. Ecco cosa mi tormenta e cosa voglio capire: dove ho sbagliato? Come ho fatto a perderli?
In un lampo affrescò quattordici scene della vita di sant’Eustorgio su un immaginario soffitto.
– Merita tanto?
– Chi? Sant’Eustorgio? No di certo, ma mi viene particolarmente bene –. Posò il pennello. – Tu, Teliq, sei stato sempre tra gli uomini e li conosci veramente. Devi raccontarmeli come sai, devi parlarmi di questo demone che li divora e spiegarmelo, per farmi uscire da ’sta crisi, e in fretta, perché se mi va in pappa la mente, qui sbaracchiamo tutti.

Roberto Vecchioni è uno dei padri storici della canzone d'autore in Italia. Per Einaudi ha pubblicato Viaggi del tempo immobile (1996), Le parole non le portano le cicogne (2000), Parole e canzoni (2002), Il libraio di Selinunte (2004), Diario di un gatto con gli stivali (2006) e Scacco a Dio (2009). Il libro di poesie Di sogni e d'amore è uscito invece da Frassinelli (2007).