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LUIGI LA VECCHIA
Verso la Toscana e altri testi

 

Toscana

C’è un di più che non pesa
fra le coltri dell’appennino
stanco e la marea acida
che lambisce il tuo sud.
Perché dire eleganza
anche al cinghiale notturno
che dissemina insulti
intorno alla nostra casa?
L’umiltà ha traslocato da tempo
si ingegna per non morire
ma l’agonia è tenaglia
che guarda il disegno beato
la cupola archetipo
il campanile di zucchero.
Non puoi non amare il troppo
che si adagia in mattoni
sui tuoi colli. Restano soli
le siepi, i rami mossi,
le dune dimenticate
gli ossi a sentinella
del tutto intorno.

 

Pisa

A volte non comprendo
il senso del fiume che pare
intorbidarsi su se stesso
come nuvola di fango
o riposare a mo’ di
palude accidiosa
finché non getto uno
stecco orfano di cure
e lo seguo con gli
occhi fino al mare.
Mi capita specialmente
a pisa dove le gocce
sembrano indecise
e sfuggono il
destino di incontrare
capraia e gorgona.

Al ponte di mezzo
sono loro a guardarmi
chiedendo qual è
il senso di quest’uomo
tra foce e sorgente
che appiccica giorni
umidi e scolla
ma di poco la radice.

 

San Miniato

Eri distratto dall’alfabeto
degli uccelli -tra pini marittimi
e cipressi- senza
decifrarne la specie
e non sapevi come cantare
alla primavera una lode
migliore che l’uomo comprenda.
La strada saliva in silenzio
verso San Miniato
Quel primo sole dettava
agli insetti inventario
trasloco e mille preoccupazioni
Noi si pensava al certo
che tardava troppo
al bello che inciampava
al semplice che giaceva
ammalato in quel tepore.

 

Elba

Non potevi cercare per quelle
isole prigioni o giacigli di esuli
perché era troppo profumata
la carica degli oleandri
e il salmastro grigio
del ritorno. Cercavi all’Elba
la pace da un terremoto
per scovare una malattia
peggiore. La debolezza di lasciare,
la paura del solo e del lontano,
la voglia di quel silenzio
e delle tenere onde.

 

Lucca

Nel trapezio rugginoso
che disegnano le mura
ogni casa nasconde
l’anima morta
degli orti di marmo.
Si accartoccia nel mezzo
mantello il mio busto gravido
di corse campestri.
Lo stomaco è lastricato
di anime perdute
che grattano per
una fessura luminosa
aperta sulle tessere
d’oro di San Frediano
(o là sulle torri nebbiose
o sui bastioni acquattati).
Solo la tomba dove
Ilaria dorme e non
piange asciuga la tempesta
delle viscere
con la carezza di marmo
che lega il cuscino
il cane prediletto
e le orecchie mute.

 

nel Duomo di Siena

Incontro strisce
incise nel marmo
come graffiti di amanuensi
avvezzi alla candela.
Sul pavimento
si disegna il sublime
della nostra casa
in un silenzio che inghiotte
lo sdegno di secoli.

Mentre guardo le figure
a sbalzo torturate
da metatarsi barbari
abbraccio gli artigiani
ormai decomposti
per i quali la bellezza è
merce di obolo e pane.

 

verso la Toscana

Si partiva in un’alba
ispida che grattava gli
occhi a noi topi di pianura
per correre a mezzogiorno
disarmati alla bellezza,
all’alfabeto del sacro.