I miei viaggi erano brevi e secchi come una tosse tisica. Otto e trenta, via Garibaldi, Pietrasanta. Dieci, Capezzano Pianore. Undici, località Montemagno, Camaiore. Avanti così, fino a sera.
Erano viaggi solitari e pensierosi, rinchiusi nel guscio stretto delle dieci ore di lavoro. Ma sempre viaggi, anche se conditi dalla fretta e dalla frenesia degli impegni giornalieri.
Tutto era lì, presente. Le rose canine e il timo sui valichi. Poi le betulle e i frassini che si scalzavano sulle coste. Più in basso le barbe di becco, i fusti neri del carpino, i castagni, fino ad arrivare ai cipressi, agli ailanti e al litorale con le sue marine di case colorate. Un mondo meraviglioso, guardato con occhi stanchi ed assenti, diversi da quelli delle domeniche di bicicletta, quando il sasso più insignificante sembrava mandarti un augurio di buona pedalata.
In settimana ogni cosa era nel suo mondo. Silenziosa e distante. Strade, scale, caldaie. Fogli con scritte quasi stenografate, volti sconosciuti. Com’è, tutto a posto? Ha i documenti? Qualcuno che si ricordava: Lei è il ragazzo dell’anno scorso, no? Poi parole superflue, commenti inutili in un flusso continuo di sagome che delineavano giovani ottuagenari, vecchi quarantenni, millantati artisti, casalinghe. Vite estranee che scorrevano nella penombra di incontri sfuggenti, spesso ripetitivi e claustrofobici.
Quella mattina la stretta stradina si inerpicava snodandosi dolcemente all’ombra di due filari di tigli. Ai lati, alcune pozze fiorivano del giallo dei ranuncoli. Poi, sopra la china, praterie di cannella argentea genuflesse verso nord, quasi adagiate sul clivio, a sottolineare il vento caldo di scirocco. Una donna correva lieve, quasi leggiadra nella sua tuta contenitiva. Avvicinandosi, gli anni aumentavano vistosamente, ma il suo sorriso roseo ed asciutto d’albicocca essiccata raccontava di una gioventù profonda, intrappolata nel tempo.
La casa era l’ultima. La strada a quel punto era un sentiero sterrato in mezzo all’erba che terminava soffocato da un bianco pergolato di gelsomino in fiore e glicine. Arrivando, intravidi qualcuno che salutava dal poggiolo.
La caldaia si trovava in un sottoscala esterno. La ricordavo perché l’inverno precedente l’avevo sezionata per bene a causa del ghiaccio che l’aveva gonfiata, quasi fatta esplodere. Anche ora era rimasta qualche perdita d’acqua come conseguenza di quella tremenda ondata di freddo.
Ha visto una donna correre, venendo in su? Mi chiese il padrone di casa scendendo le scale.
Buondì… Sì, era nella zona dei tigli, risposi.
Speriamo non si allontani troppo, continuò. È mia moglie. L’altra volta ho dovuto chiamare i carabinieri, sa? Mi disse che si era allontanata e non aveva più fatto ritorno. L’avevano trovata a dormire sotto un nespolo.
Con quello che ha, disse, non sono mai tranquillo. Quell’uomo sembrava non vedesse l’ora dell’arrivo di un estraneo per raccontare le proprie disgrazie.
Intanto le cacchine dei gechi cadevano dalle pannellature della caldaia. I loro fautori non si vedevano, in compenso alcuni calabroni stavano avvicinandosi paurosamente al sottoscala e forse avevano le loro buone ragioni! Spostando una lamiera appoggiata alla caldaia si era staccato un favo, probabilmente avevo distrutto la loro casetta. C’era solo da sperare che non si innervosissero troppo.
Non ha l’Alzheimer, quello no! Riprese. Ha qualcosa di simile, ma i medici non capiscono… Non capiscono! Ripeté con gli occhi ormai lucidi.
Mi scusi. Singhiozzò allontanandosi. Andò ad appoggiarsi alla ringhiera che si affacciava sulla valle, dandomi le spalle. Io continuavo il lavoro. Erano già le undici e mezza e non pensavo ad altro che ad andare a casa a mangiare per risparmiare un po’, ma ero distante e il lavoro si stava facendo lungo.
Risistemata la caldaia un po’ alla meglio, date le condizioni generali e rimontato tutto, scrissi i documenti, presentai il conto e presi i soldi.
Allora se vedo sua moglie le dico che sta aspettandola per mangiare, dissi.
Mi farebbe un favore in più? Mi chiese. Se è distante, potrebbe riportarmela qui?
Certo… D’accordo! Addio pranzo a casa, pensai.
Avevo lasciato i finestrini chiusi e la temperatura all’interno della macchina era davvero insopportabile. L’aria del mezzogiorno di fine giugno spazzata da quei venti caldi del sud non stemperava per nulla l’abitacolo, anzi aveva l’effetto del forno ventilato: mi cuoceva a puntino.
Passai la prima prateria con le fila di tigli. Scesi ancora, dove da uno stretto tornante si vedeva una fetta di mare. Sembrava sorretto da una diga trasparente costruita tra due montagne di un verde intenso. Più in basso la strada si adagiava sul fondovalle, costeggiando un torrentello con acqua in abbondanza da formare laghetti balneabili. Le fronde dal colore tenue e cangiante dei salici bianchi scendevano fino all’acqua increspandola affettuosamente, mentre le colonie di osmunde protese sul torrente sembravano eserciti pronti a sferrar le armi contro le canne della sponda opposta, dove una piana d’erba e margherite si stringeva tra l’acqua, le canne e le rocce a strapiombo.
Vidi la donna seduta su un grosso scoglio che spuntava dall’acqua. Mi fermai e salutai dal finestrino lato passeggero.
La sta aspettando suo marito per pranzo!
Oh, sì. Per mio marito è sempre l’ora che io torni a casa. Non può stare senza di me neppure un minuto. Venga! Venga a vedere cosa si perde quell’uomo a non uscire mai di casa.
Mi avvicinai e salii sulla rocca.
Vede? Lì di fianco a quel pietrone in acqua!
Un pesce stava deponendo le uova nella penombra, tra le alghe e le pietre.
Non le sembra strano?
Strano che cosa?
Mi disse che quella era una trota e di solito non depongono uova in estate. Ma questo è stato un inverno freddo e lungo, aggiunse.
Non avevo mai visto un pesce mentre procreava ed era una cosa affascinante. Guardai la donna. Cercai di individuare la sua malattia, ma non notavo nulla di disarmonico. Tutte le sue rughe, l’espressione degli occhi e le sue movenze sembravano rappresentare equilibrio e gioia di vivere.
Non se ne vada, eh! Adesso arriva il maschio. Sa?... Sono alcuni giorni che li seguo mentre fregano il fondo per preparare il nido ai loro piccoli.
Mi chiese se suo marito avesse detto qualcosa sul suo conto, risposi di no.
Ah, meglio. Di solito racconta che ho qualche malattia strana. È un po’ ipocondriaco… Nei miei confronti.
Nel frattempo arrivò davvero un altro pesce e dopo un altro ancora, più piccolo.
Quello è il terzo incomodo, mi sussurrò all’orecchio.
Bene, allora mi incammino. Ha mangiato lei? Vuole pranzare con noi?
Accettai con piacere. Speravo solo che le loro pazzie fossero bonarie.
In verità… È mio marito che non sta molto bene, mi confidò una volta salita in macchina, senza che i suoi occhi perdessero il loro brillo gioioso.
Ma sono speranzosa, l’aria di quassù è un elisir di giovinezza. Sa, siamo ritornati da Milano da qualche settimana, eravamo costretti a stare vicini all’ospedale. Ma basta tediarla con queste storie.
Arrivammo alla casa. Il marito fece ancora cenni dal poggiolo.
Tirarono fuori dal surgelatore pacchi di tordelli al ragù, verdure, frittate e spartirono tutto tra forno e microonde.
Non si preoccupi, venti minuti e si mangia. Non mi preoccupavo affatto, anzi non avrei potuto chiedere di meglio, abituato alla frugalità della fretta.
Il tempo di alcuni convenevoli ed era in tavola. Mangiammo sul terrazzo sotto un muro d’edera. Davanti a noi, oltre la balaustra si estendeva un prato verdissimo e infinito, intramezzato da alcuni alberi. Mi raccontarono che un tempo la casa e i terreni appartenevano ad un viaggiatore che aveva portato piante esotiche da ogni parte del mondo. Mi girai a guardare il prato e poco distante da noi c’era un bellissimo acero palmato di una decina di metri d’altezza. No, disse la donna, questo era un bonsai che curava mio marito. Deve aver sbagliato qualcosa. Vero caro?
Il banchetto fu piacevole. Non riuscivo a capire chi dei due mentisse, chi avesse effettivamente qualche malattia. Lui sembrava non essere in grande forma fisica, ma aveva la lucidità dell’ingegnere che mi disse essere stato fino a pochi anni prima. Lei era come se avesse avuto delle antenne. Non si poteva fare un pensiero al quale non fosse già arrivata poco prima. La sua intelligenza sembrava portata da una sensibilità superiore. All’opposto del marito che la sensibilità la squadrava col ragionamento, lei comprendeva tutto con qualche vibrazione dell’anima e prima degli altri. Due mondi reciproci, i loro, che si intersecavano, si urtavano e allontanavano, ma poi arrivavano allo stesso punto.
In quel pranzo inaspettato stavo imparando ad apprezzare il mondo di due sconosciuti e lo recepivo come qualcosa a cui aspirare. Anche se quella sensazione di bene assoluto che mi stava facendo quasi dimenticare il lavoro, era smorzata da quel demone pazzo che si aggirava nelle loro stranezze. Forse mi prendevano in giro, forse si prendevano in giro loro. La cosa più semplice era non pensarci troppo e godersi quel momento.
Ringraziai e salutai. Restammo d’accordo che un giorno avrei portato lì mia moglie e mio figlio per passare la giornata assieme. Loro non avevano né figli né nipoti, sarebbero stati felicissimi di ospitarci.
Scesi a valle. Rallentai un po’ per guardare lo scoglio delle trote. Sorrisi, ero contento. Poi proseguii per Viareggio, nel pomeriggio dovevo controllare tre caldaie esterne, sotto il sole, con grossi problemi… Loro e i loro padroni.
Alcuni giorni dopo telefonai al numero che mi avevano lasciato. Mia moglie non vedeva l’ora di far correre il bambino per quei prati che le avevo descritto. Poi avremmo potuto fargli vedere anche gli avannotti di trota appena nati. Il loro telefono, però, era perennemente irraggiungibile. Provai alcune volte, poi lasciai perdere. Avevano anche loro il mio numero, se avevano veramente voglia di ospitarci si sarebbero fatti sentire. Però passò il tempo, passò l’estate, arrivò l’autunno e poi l’inverno e non si fecero più sentire. Non ci pensai più.
Qualche tempo dopo, era un venerdì di fine gennaio, arrivai in magazzino di sera. C’erano alcuni colleghi che riponevano i loro attrezzi, altri facevano la doccia.
Caffè? Mi chiese Carlo facendosi saltellare un paio di cialde sul palmo della mano.
Mah… Sì, va’! Non sono ancora nervoso al punto giusto! Carlo era il più giovane ed era con noi da circa un anno.
O, sono stato in un posto in culo ai lupi, c’eri andato anche tu l’estate scorsa. È ghiacciato tutto. Gli ho detto di cambiarla quella caldaia.
Ma dove, a Montemagno? Che dicevano quei due?… L’ingegnere e la moglie, dico.
Ma no, quelli non c’erano già più in autunno quando ero andato per la manutenzione. Mi pare di ricordare che erano tornati a Milano… Ora ci sono degli altri.
Una settimana dopo andai con Carlo a sostituire quella caldaia. Ci lasciarono tutto il giorno di buono, ma finimmo il lavoro in quattro ore. La spostammo all’interno, così non avrebbero più avuto il problema delle gelate.
Chiesi al padrone di casa se sapeva qualcosa dei vecchi proprietari. Ma chi? Olga e Maurizio? Annuii dubbioso, accorgendomi che, effettivamente, i loro nomi non li conoscevo.
Ma loro sono i nostri governanti, disse. Quando la casa è chiusa vengono di tanto in tanto a rassettare un po’ le cose. Oppure aprono quando venite voi. Ora sono a Milano, a casa nostra.
Ah, avevo capito male. Dissi. Però iniziavo ad intendere bene la situazione.
Provammo l’impianto e attorno alle due del pomeriggio mettemmo tutto sul furgone e scendemmo a valle. Arrivammo alla zona dei laghetti e ci fermammo per mangiare i nostri panini nello spiazzo tra i salici. Restammo sul furgone per il freddo. L’inverno non dava tregua. Il fiumiciattolo era per metà ghiacciato e le cascatelle sembravano muri di cristallo. Anche i rami dei salici che scendevano in acqua erano rimasti intrappolati.
Così t’hanno raccontato delle palle quei due?
Pare di sì, risposi. Pensai che non mi avevano mai detto di essere loro i proprietari. Certo l’avevano lasciato intendere. Dissi a Carlo che, comunque, erano stati gentili con me e che mi avevano fatto sentire a casa. Del resto, poi, a me che importava?
Finito di mangiare ci azzardammo ad uscire. Il sole del primo pomeriggio aveva scaldato un po’ l’aria e tutto sommato si stava abbastanza bene fuori. Riuscimmo anche a vedere una coppia di caprioli che erano usciti dal bosco in cerca di cibo. Vedendoci annusarono un po' l'aria e decisero di scappare. L'odore di operaio deve venir percepito come un pericolo dalla natura.
Salimmo sulla roccia delle trote. In quel punto il fiume non era ghiacciato. Sul fondo, un po' intorbidito dalla corrente, si vedevano sagome immobili di pesci. Sorrisi all’idea che potessero essere i figli nati da quel ménage à trois che vidi con Olga... Olga! Pensai che se avessi dovuto indovinare il suo nome avrei potuto benissimo dire quello. Maurizio no, era più un… Ubaldo.
Sai che ti dico, Carlo? Li chiamo ancora una volta. Passami il telefono. Magari il posto è propizio. Provai, però il loro cellulare era spento, come l’estate prima. Poco dopo, passato un po’ l’entusiasmo pensai: chiamarli? Per cosa?
Salimmo sul furgone e ci dirigemmo verso il magazzino. Imboccata l’Aurelia suonò il cellulare. Era... Ubaldo.
Ah! È lei, signor Marco! Disse che era molto dispiaciuto per non averci potuto ospitare l'estate prima, ma erano dovuti partire per Milano quasi subito per dei problemi di salute di sua moglie.
Mi assicurò che la primavera successiva avrebbero fatto di tutto per tornare giù e organizzare una giornata assieme alla mia famiglia. Risposi che sarei stato felicissimo. Alla fine mi disse che aveva sentito il suo domestico, gli aveva riferito che avevamo fatto un ottimo lavoro.
Messo giù il telefono fissai Carlo mentre guidava.
Che c’è?
Sai? Quello su, quello della casa?... La novità è che è lui il domestico.
Mi guardò con gli occhi sbarrati e con la mano iniziò a farsi il gesto del tergicristallo davanti alla fronte.
La gente ‘un c'è con la chiorba... ‘Un c'è proprio!
Dopo qualche istante diede una serie di testate nel finestrino e scoppiò a ridere sguaiatamente. Il Furgone sbandò un paio di volte. Le auto che avevamo dietro sembravano i tifosi di una squadra che aveva appena vinto lo scudetto.
Calmo, Carlo. Calmo! Ci tengo alla pellaccia, sai?
Il furgone riprese l’assetto e mentre tutti ci sorpassavano, il mio collega si premurò di mandare a quel paese uno per uno.
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