Musica
C’è chi fa il pane.
Io faccio Sangue Amaro.
C’è chi fa profilati d’alluminio.
Io faccio Sangue Amaro.
C’è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale.
Io faccio Sangue Amaro.
Io mi faccio il Sangue Amaro.
È una specialità della casa, sin dal lontano 1957.
Fine musica
Mio padre sta versando caffé nelle tazzine degli ospiti. Sono un bambino e non bevo caffé, ma oggi questa scena mi incuriosisce, perché mio padre è ferito. Sembra averlo scordato, adesso, mentre ride chiacchierando, col carillon dei cucchiaini che girano tintinnanti nel sole pomeridiano. Eppure il suo mignolo è avvolto in una smisurata garza, per proteggere l’unghia rimasta schiacciata nello sportello di un’auto, qualche giorno fa. Io guardo affascinato l’enorme dito bianco che oscilla sulla tavola, finché, d’un tratto, lo vedo immergersi nel liquido fumante, senza che lui, distratto, se ne accorga.
Sto lì, ipnotizzato, in mezzo al tepore postprandiale, tra l’odore di cibo e di tabacco, senza dire nulla, senza avvertirlo del nero che intanto va montando lungo la fasciatura, risalendo verso la sorgente del dolore, lentamente, inesorabilmente. Più su, più su, e lui niente. Adesso, però, l’intera benda è diventata scura, intrisa di un bitume incandescente. Così la mia infanzia si arresta, attraversata da un urlo improvviso, il tonfo del bricco, le schegge di ceramica, gli schizzi sulla tovaglia. Ecco cos’è per me “la voce del sangue”: la fitta di chi chiama dall’interno, e chiama e chiama, finché la gente intorno si decide a ascoltarla, mentre lento si spande l’aroma del caffè.
Musica
Mi lavo i denti in bagno.
Ho un bagno.
Ho i denti.
Ho una figlia che canta
di là dalla parete.
Ho una figlia che ha voglia di cantare
e canta.
Può bastare.
Fine musica
Gli era sempre piaciuto il caffé, per questo, alla fine, non mi sono sorpreso più di tanto quando ho capito che lo sarebbe diventato. Mi riferisco alla tomba di famiglia. La ricordavo appena, traccia svanita di qualche lontano funerale. Alla sua morte, tuttavia, fui costretto a prendere confidenza con quel luogo e con i suoi protocolli; burocrazia dei cimiteri. Trascurato da oltre un decennio, il sepolcro era caduto in abbandono. Fissai un appuntamento con un addetto, per indagare meglio la situazione. In breve seppi che, tra la colliquazione di alcune salme e l’umidità del posto, il vano risultava mezzo allagato, in uno stato di completo disfacimento. (Tolto il coperchio marmoreo, mi curvo perplesso sul vuoto, e intravedo le casse accatastate in mezzo alla melma, come in un acquitrino, mentre dal basso sale un’aria fredda, da vecchio scantinato).
Ora occorreva fare pulizia. Mi hanno sempre colpito i racconti in cui un gruppo di persone viene esposto alla necessità del sorteggio. La paglia più corta. In un modo o nell’altro l’estrazione del prescelto possiede una irresistibile forza d’attrazione. Ecco: ho sempre avuto la vertigine della conta, e anche quella volta andò proprio così. Nel gorgo della chiamata, finii come al solito io. Fra tanti parenti, toccò a me il compito di ripulire l’avello – non le stalle di Augia, bensì il loculo del Verano. Insomma, come nei giochi di carte da bambino, mi capitò in sorte l’Uomo Nero, anzi, gli Uomini Neri, visto che di cadaveri, lì dentro, ce n’erano diversi. E che dovevo fare, con quel pantano di poveri dormienti?
Le pulizie di Pasqua ebbero inizio allora, con l’aiuto di un esperto, scelto per presiedere ai lavori. Perché si trattò di svuotare, spalare, prosciugare, ricostruire e areare quel mondo sotterraneo popolato di salme. Fu così che affrontai la questione delle “rese”.
La resa è la differenza di quanto, dopo morto, ognuno paga con la propria vita: l’avanzo degli avanzi, l’autoreliquia. Ogni resa equivale a un corpo, o piuttosto a ciò che ne rimane una ventina d’anni più tardi. La tomba, insomma, è una macchinetta distributrice che dà indietro il resto, sia pure dopo un’attesa alquanto prolungata.
Musica
Ingegnoso, mio figlio si chiude nella doccia
incolla un foglio al vetro, dall’esterno,
e per un’ora, immerso nel vapore,
impara a memoria Ugolino.
Scendono l’acqua e i versi, lui sussurra,
mi costa una fortuna, ma alla fine
esce lavato, profumato, pieno
zeppo di endecasillabi.
Fine musica
Storia curiosa, questa dei residui conservati a oltranza. Conobbi allora il motivo per cui l’Italia dei Sepolcri foscoliani si differenzia da tanti altri paesi. Senza parlare della cremazione, ciò che contraddistingue le nostre usanze funebri è il modo in cui confezioniamo il cadavere. In molte nazioni la spoglia viene affidata alla terra, in una semplice cassa di legno, per poi filtrare via, sciolta nell’humus. Da noi, al contrario, i morti sono accolti in un’architettura che impedisce loro di svanire.
Ospitati dentro caseggiati di pietra, isolati dal suolo, sono riposti, sì, entro bare di legno, ma bare foderate di zinco. Così facendo, viene impedita loro ogni via di fuga. (E per finire dove, poi? In una specie di residence coi pavimenti in marmo). Diventano perciò mucchi, pozzanghere, ma immobili, bloccati, senza poter evadere da quell’invaso metallico. Siamo una società conservatrice, che non vuole smarrire-smaltire nemmeno i propri cadaveri. Tombe come cibi in lattina, tombe come cassette di sicurezza: e che nulla si perda, strada facendo!
Questo mi disse il tecnico, per spiegarmi in cosa consistessero le rese. La resa era appunto il travaso di quei resti, dopo un certo intervallo, dalla cassa vera e propria a una piccola scatola di latta, numerata. Intanto, fra me e me, vedevo una cantina riempita di barrique. D’altronde, come non pensare all’invecchiamento dei vini, alle botti, alle annate… Legno, tannino, feccia – gli equivalenti della strana pasta che dovevo domare, io, all’oscuro di tutto fino a ieri, io, perfetto incompetente della Morte. Stavo prendendo lezioni di Scuola Guida, per un Aldilà che appariva molto lontano dalle mie aspettative. Mio padre mi obbligava ad esperire il grande regno della Stagnazione e del Parcheggio-corpi. Ma le colonne altissime di fumo, le eroiche ceneri disperse al vento e alle onde, perché no? Perché no. Così, sono alle prese con le rese.
Ce n’erano quattro o cinque, dei miei cari, da sottoporre a trasloco. L’operazione richiedeva la presenza di almeno un parente stretto. Allora, mostrando l’Asso di Bastoni che avevo estratto dal mazzo, mi feci avanti e fissai l’appuntamento.
Musica
Se tutto dovesse andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che vibrano,
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.
È questo stormire neurologico
Di fronde che dunque mi attende
Se tutto, proprio tutto, dovesse andar bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremolare di luci
alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.
Fine
Il sangue amaro e Geologia di un padre sono editi da Einaudi.
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