Mi sveglio abbracciata a me stessa, avviluppata al mio ego insignificante. Rannicchiata, avvolta in una scomposta posizione fetale. Ho portato le ginocchia vicine al petto e le ho appoggiate al cuore, durante il mio ennesimo sonno travagliato. Lascio che le cosce aderiscano al ventre, colmo un dislivello, un'assenza. Mi scaldo l'anima, stamattina: la luce del sole non mi bagna la faccia. Una nuvola gonfia di lacrime sosta dinanzi a questa casa; è ovatta torbida e avvolge ogni cosa, insonorizzandola. Il mondo fuori sonnecchia ancora, titubante. Non vuol disturbare. Teme di infrangere la quiete cristallina di questa mattina esiziale. Ma tra poco il canto stonato delle campane sancirà ufficialmente l'inizio impavido di un nuovo giorno. Ed io rimarrò così, mummificata su questo letto, immobilizzata su questa terra. I ricordi mi distruggono. Il tempo senza di lei mi consuma. Sono la proiezione di me stessa. Un riflesso sbiadito senza più bordi o confini. Non ho limiti, nemmeno argini. Eppure continuo a scorrere lenta, senza straripare. Non ho più parole da dire o sogni da gridare al cielo. Ho perso tutto. Mi privo di tutto. Sfiorita, scaduta. Ormai, fuori tempo massimo. Soffocata da pianificazioni e strategie, mi appoggio ad un inesistente muro di certezze. Mi scruto, solo da lontano. Osservo la crescita, il cambiamento. Inevitabilmente scorgo il deterioramento, la necrosi.
Mi vesto in fretta, battendo i denti. Mi vesto di dimenticanza e spero che riesca a proteggermi dal freddo. Mi avvolgo nella sciarpa e quel cashmere grigio mi punge, ma il fastidio è piacevole, necessario. Stamattina, questa morbida fusciacca è l'unica protezione che mi concedo; Cavalli di Frisia di lana, filo spinato buono. Scendo le scale, ventuno gradini tutti uguali. Calpesto rumorosamente quel granito scuro, faccio rumore. Voglio far rumore, dar fastidio. Far capire persino agli stucchi di questa stupida parete che anche oggi son pronta a consumare il mio ossessivo rito quotidiano. Mi stringo nel cappotto e, in un attimo, la strada mi accoglie materna. Mi lascio abbracciare dai marciapiedi di questa città che, da sempre, è parte di me. Ogni elemento è familiare, esistenziale. Da anni, mi trascino su questa lunga striscia di cemento logoro. Da anni, ne schivo i solchi, ne evito i sampietrini disconnessi e scivolosi. Il tempo ha reso questo percorso inadatto al mio passo svelto e nervosetto. Perdo spesso l'equilibrio, rischio continuamente di cadere, ma non mi arrendo, non mi fermo. Continuo a camminare e, in pochi minuti, raggiungo la prima tappa di questa mia folle e personalissima Via Crucis.
Il parapetto è lì, al solito posto. Rigoroso e stabile, macchiato dallo smog, da frasi volgari, sporcato dalle mille dichiarazioni d'amore, dall'abuso del per sempre. Scorgo un numero di telefono, un nome di donna, un Maria, torna da me. Sei tornata da lui, Maria? Lo hai chiamato, lo hai perdonato? Forse, avete fatto pace. Vi siete riconciliati con un abbraccio e poi, avete fatto l'amore. Lui si è addormentato tra le tue braccia e tu lo hai guardato, adorante. Lo hai baciato sulla sua fronte di bambino e ti sei accontentata ancora dell'eternità di quell'istante. O forse, no. V’immagino giovani, Maria, sprovveduti e turbolenti, affamati di vita. E vi invidio. Invidio l'immagine distorta che, delle vostre anime, mi sono creata. Perché forse non esistete neppure ed io - avvinghiata a questa balaustra, stretta al mio passato e al mio destino - invidio il nulla. Un nulla che si fa carico di tutto e mi si pianta nello stomaco, proprio tra le costole. Lì, dove ho già una fossa scavata da anni di lacrime tacite, da quell'omertoso silenzio che mi ha divelto lo sterno, scardinandolo a mani nude.
Appoggio i gomiti appuntiti e consumati sulla pietra logora. Sposto il peso di tutto il corpo su quegli angoli fragili e allungo il collo. Mi sporgo quel poco che basta per provocarmi una vertigine e per vedere sotto. L'Arno scorre nel suo letto, gonfio, ingrossato dalle piogge che, da giorni, tormentano questo mio limitato angolo di mondo. Si muove come un grande pachiderma, senza fretta, a rallentatore. Cauto, ma con la consapevolezza di poter distruggere qualunque cosa, solo se volesse. Eppure non lo fa. E' una fiera addormentata, un leone esausto dopo il suo numero da circo. Ed è strano che non abbia deciso di ribellarsi e uccidere. Spazzar via le esistenze, le vite, i ricordi di quegli umani che di lui han perso ogni rispetto e ne hanno velocizzato la suppurazione, lasciandogli in dono solo un colorito malsano.
Io mi godo quel verde, quelle chiazze scure. Avvolta in un silenzio assordante, osservo il degrado, l'inquinamento, quel dolore liquido in cui a volte credo di potermi specchiare, in cui a volte credo di poterla vedere ancora. Ancora il suo riflesso. Ancora lei.
Nata in città, dondola senza sosta tra i vicoli del centro, ondeggiando dentro ad un vestito a fiori, trascinandosi nelle scarpe di vernice rossa, allacciate alle caviglie. Mitomane e kitsch, porta addosso i segni indiscutibili dello scorrere del tempo e quella borsetta un po' retrò, di una formalità caoticamente opinabile. Abiti sbagliati, posti sbagliati, momenti sbagliati fanno parte del suo insensato e folle corredo genetico. Una chioma di boccoli ambrati poi incornicia l'ovale spigoloso di quel volto angelico, riempito da due infinite iridi azzurre e opache; ma lo sguardo è spento e perso, distratto. Non si lascia avvicinare da nessuno, si lascia spaventare da tutto. L'abbaiare di un cane, le grida isteriche dell'arrotino, il gemito disperato di un bambino. Ogni rumore, ogni sussurro rappresenta una minaccia; un terrore che la rende immobile, congelata dentro i suoi vestiti sempre troppo leggeri per quel freddo viscerale e paralizzante. Si ferma in mezzo a tutti, a tutto. E in quel momento, paradossalmente, il mondo le appartiene: alienata regina del caos.
Callosa e sfuggevole, un giorno però si lascia abbracciare. Una notte, si lascia amare. E quella stessa notte, sboccio io. Piccola e indesiderata. Amata, dolorosamente. Nata da genitori che non sono sposati. Sono un errore a cui la burocrazia impone il breve cognome della madre. E' il destino beffardo che mi avverte, preannuncia il suo inevitabile compimento. Come un boia, taglia la testa di mio padre e mi condanna a essere un'orfana, una mutilata. Cresco, muovendomi su un campo minato. Cresco taciturna e riflessiva, calcolatrice e ponderata: «Se metto il piedino là, salto in aria». Sono diversa dai mocciosi di cui mi circondo. Sono una grottesca miniatura di donna e so che la felicità instupidisce e banalizza. Ti omologa alla massa soffice dei bambini sorridenti e spensierati, destinati a sostare nei loro paradisi di zucchero filato e ciniglia rosa.
Ho sei anni e faccio i conti con un inferno di bottiglie rotte e lamette spezzate, insanguinate. Niente caramelle per me. Nessun bastoncino di liquirizia colorata nella credenza. Non un briciolo di dolcezza in quella vita. Solo infiniti flaconi di barbiturici e calmanti.
Ho undici anni e non mi sbilancio mai. Con la grazia di un funambolo mi muovo cauta sui bordi della follia di mia madre. Al di sotto, non vi è rete.
Ho quindici anni e mamma mi guarda con occhi liquidi, mentre cerco di indossare una sua vecchia gonna a pois. La zip laterale si chiude a fatica sui miei fianchi prosperosi e floridi. Adoro fasciarmi nei suoi vecchi abiti; è un modo sciocco per sentirla più vicina, per dire «Bene, adesso le assomiglio un po'». Mi guardo allo specchio e sorrido. Ho le ciglia molto lunghe e i denti bianchi, la pelle trasparente. Anche mamma sorride, si gode lo spettacolo di quella figlia generata così bene dalle sue radici marce. Per un attimo, le nostre vite appaiono meravigliosamente banali. Ma l'odore della naftalina risveglia ricordi ancestrali e le immagini di ieri si fanno penosamente spazio nella mente. Mamma accarezza il tessuto liscio della gonna; trenta centimetri di dolore le scivolano tra le mani. Si allontana da me, si lascia cadere a terra. Una lacrima le solca il viso. E piange. Si piange addosso e non sa smettere, non può smettere. Nessuno le offre una spalla su cui farlo, su cui sciogliersi. Io ho solo quindici anni e non capisco. Le rido in faccia, le sbatto addosso tutta la mia ilare spensieratezza. Sono una giovane puledra! Pulsione libera! Istinto nuovo! Io sono vita! E lei mi invidia; mi ama e mi detesta. Il suo è un sentimento innaturale, consapevole. Sa che è sbagliato, ne comprende l'ingiustizia. Ma ho gli occhi di mio padre e lei, davvero, quegli occhi non può smettere di odiarli. La osservo. Sono poco più che una bambina, ma il suo buio non mi spaventa: riesco ad avvicinarmi, a sedermi accanto a lei. Le accarezzo i capelli, avvicino il naso alla sua guancia lucida. Inspiro il suo odore, che è uguale al mio e che, con il mio, si confonde. Così perdo me stessa. Dove inizio, io? Non lo so più.
«Sei bellissima, mamma.»
«Hai gli occhi di tuo padre.»
Ma "Padre" è un concetto con emivita breve e mi sfugge, non mi appartiene. Perché se "Padre" è colui che ti genera, allora io sono genitrice di me stessa. Di lui resta solo una promessa d’infinito non mantenuta e un dannato "come volevasi dimostrare": l'amore è un gioco indegno e i partecipanti sono spietati. Babbo è un vigliacco, un carnefice e decide di lasciarci, ma senza mai scomparire. Mamma lo ha intrappolato nella memoria, imprigionandolo nei chiaro - scuri di ogni stanza. Ogni sera, accarezza quei contrasti. Ogni sera, balla con un'ombra. Al crepuscolo, fa l'amore con lui. Si lascia possedere da un riflesso umido, si lascia amare dalla solitudine. Si sfiora, accarezza la curvatura morbida dell'abbandono. Si raggomitola e viene. Silenziosa e pulita, viene. Giace inerme sotto gli spasmi di un orgasmo doloroso e pudico. Ha peccato e allora piange. Piange come una bambina, come una ventenne a cui una guerra ingiusta ha portato via il padre di un figlio concepito troppo presto. Piange come una vedova, dinanzi al marmo brizzolato di una tomba. Ogni lacrima le porta via un anno di vita. Adesso ha mille anni e nemmeno se n’è accorta. Il pianto la consuma, prosciugandola. Si sente una prugna secca. E' Nuda. Sente il pavimento freddo fin dentro le ossa. E si lascia scuotere. In un attimo, i brividi diventano spasmi lenti e cadenzati, singulti regolari e ritmici, strazianti. Esasperati. E' livida e raggrinzita, stremata. Presto si addormenterà.
Accade velocemente. Io, assopita nel mio letto. Lei, priva di liquidi, sottomessa alla sua stessa esistenza sale sul parapetto di granito senza voltarsi: l'Arno la sta aspettando. Sospira. Mamma torna all'acqua.
Tutto torna all'acqua.
La stessa che adesso mi bagna la testa, perché l'inondazione quotidiana dei ricordi ha portato con sé la tempesta. Una nuvola nera si è aperta inesorabilmente e grossi scrosci d'acqua lambiscono il cemento, i logori asfalti, la mia figura. Sotto un'insulsa pensilina di plexiglass scheggiato dal tempo e dal degrado, aspetto quell'autobus che non tarda ad arrivare e ancora mi inghiotte e ancora mi traghetta nell'aldilà, barca di Caronte. Arrivo dove l'Arno da sempre spalanca le sue fauci e riversa in mare chilometri di putridume e scorie, memorie e ricordi. Inevitabilmente, tutto torna al mare, affoga tra i flutti, lasciandosi scivolare sul fondo.
Un'onda impetuosa s'infrange sugli scogli. Gli schizzi mi colpiscono il viso, feriscono come schegge di vetro, si mescolano al sale delle lacrime. Sono anni che l'aspetto, che mi siedo sempre sullo stesso masso bianco e osservo il mare. Ho immaginato a lungo il suo ritorno. L'ho sognata giovane e nuda, una venere impaurita e anoressica. Ad occhi chiusi, ho guardato ogni parte di lei, ogni singolo lembo di carne. I seni piccoli e scuri, come noccioli, frutta essiccata al sole. Il terreno arido delle sue cosce lisce, dove i lividi sostituiscono l'abbronzatura, tra distese di capillari rotti e ribellioni di melanina. Le esili caviglie, i polsi ricamati da un'immonda fantasia di cicatrici. Ho ridisegnato la sua espressione da Madonna: il volto della pietà, carico di tensione sacrificale. Ma, oggi, l'ologramma di mia madre ha i bordi sfumati, fortunatamente sbiaditi; slabbrati. La Taranta delle interferenze si fa allora letale per la codifica di questo ricordo. Inspiro profondamente e questa mia madre sempre verde scompare.
Nel frattempo, con un gemito strozzato il giorno muore, perdendosi nell'oblio luminoso dell'orizzonte. Evapora, si perde nell'etere ceruleo, mentre soffia via, leggero, i resti del passato. Il Tirreno rabbrividisce dinanzi allo splendore del nulla e si increspa, incerto. Spaventato, forse dalla sua stessa incontrollabile potenza. In un'esplosione di colore, il cielo muta la sua forma e, preludio dell'oscurità, offre agli uomini ancora un po' di luce; quella necessaria per guardarsi dentro un'ultima volta e capire che, no, non si è morti davvero. Altrove, una fenice splendente risorge da ceneri auree e il grido liberatorio della primipara odora di nuovo, dopo decenni, di promesse tutte da mantenere.
È l'ennesimo tramonto, ma lei non tornerà.
Ho messo a posto la mia vita, i miei libri, i miei vestiti. Ho buttato i fogli, catalogato le emozioni, inscatolato milioni di parole. Ho sistemato le mutande nei cassetti, i sentimenti sotto al divano. Le scarpe al loro posto. Gli occhiali sul comodino. La borsa ai piedi del letto. Lei in un universo parallelo.
Dentro me è ancora giorno.
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