Anche se di solito mi sento più a mio agio con
il disegno, la pittura, i colori, stavolta ho deciso
di usare solo due di questi colori, il bianco e il nero
della scrittura, per evocare con le parole tutto un
mondo di altri colori che dipingere avrebbe richiesto
una tela forse troppo grande.
Molto spesso trovandomi lontana da qui, quando penso
alla Valdelsa, alla mia casa, non mi sovviene un immagine
particolare o un paesaggio preciso. Al contrario, come
in uno dei migliori quadri astratti di Corpora, mi vengono
in mente solo i colori e le forme di questa zona, di
questa parte di terra alla quale appartengo e alla quale
mi sentir˜ legata per sempre. Ed è pensando
a questi che, come assaggiando la mia personale madeleine,
mi ritornano in mente episodi e ricordi del passato,
una mappa colorata di ci˜ che oggi mi fa essere
quella che sono.
Bianco e verde
“ Dov’è?ì
Mia mamma sembrava decisa
a non mollare la presa.
“ Se qui un c’è,
allora tu m’hai a dire ‘nd˜ è?ì
Io non ce la facevo a
dire la verità, perci˜ continuavo a negare
l’evidenza arrampicandomi sugli specchi,
come solo ogni brava
bimba di otto anni sa fare.
“ Un lo so, io
l’ho lasciato qui, se un c’è l’avrà
preso la gatta.ì
Sì , certo; un
rasoio usa e getta con il quale avevo appena cercato
di fare i baffi alla mia sorella maggiore, con il solo
e prevedibile risultato di rischiare di sfigurarla,
l’aveva fatto sparire la gatta. Plausibile, come
no! Complimenti per la più indifendibile delle
bugie. Colta dal panico, non avevo saputo inventare
di meglio.
La verità era
che non appena mia sorella aveva iniziato a strillare
per un misero taglietto ed era corsa da mamma, io avevo
spalancato la portafinestra della nostra camera e, con
un gesto degno del miglior lanciatore della babyleague
di baseball, avevo gettato l’arma del delitto
tra l’erba del campo retrostante la nostra casa.
Dopodichè avevo richiuso la finestra, giusto
un attimo prima che mamma entrasse a farmi il terzo
grado, seguita da mia sorella.
La scusa della gatta
non la convinse. Mi fece rovistare la camera da cima
a fondo, guardare sotto i letti alla ricerca di quel
famigerato rasoio. Poi, quando giudicai di aver fatto
trascorrere abbastanza tempo perchè la mia bugia
fosse ancora più credibile (eh sì , la
disperazione fa diventare diabolici...) mi girai verso
la finestra e dissi, cercando di dare alla mia voce
un tono il più candido possibile:
“ Mamma... la vedi
anche te quella macchia bianca là, in mezzo all’erba?
Un potrebbe esse’ quello i’ rasoio? Ce l’avrà
portato la gatta...ì
Mia madre prima guard˜
fuori, poi rivolse a me uno sguardo dubbioso, come a
dire che per quella volta mi era andata bene, poi...
Poi da qui il ricordo
svanisce, ma non ha molta importanza. Di quel giorno
sono rimaste la paura, il senso di colpa, la consapevolezza
di aver fatto qualcosa di sbagliato... tutte sensazioni
che ognuno di noi ha provato da bambino. Nonostante
ci˜, nonostante in quei momenti abbia sperimentato
il più forte batticuore che io ricordi, l’immagine
più nitida di quell’episodio è quella
macchia bianca in mezzo al verde, e non porta con sè
sentimenti negativi, ricordo solo che quell’erba,
che oggi non c’è più, era proprio
di un bel verde...
Rosso - rosa papavero
“ Sotterratemi là.ì
Anche mia nonna era irremovibile.
“ Sotterratemi là, ho detto. Così
da llà posso venì a occupammi della ‘asa.ì
“ Làì era il campetto accanto a
casa nostra, al di là della strada, da dove in
effetti, liberamente interpretando le credenze popolari,
mia nonna credeva di poter tenere d’occhio la
casa e mandare il suo spirito in caso di bisogno. Una
buona pensata, senza dubbio; abbiamo avuto il nostro
bel da fare a convincerla che forse
qualcuno non ci avrebbe dato il permesso.
In quel campetto, sempre in tenera età, andavamo
io e mia sorella a fare qualcosa che il mio animo ambientalista
oggi depreca.
Quando arrivava la primavera, il campetto in questione,
come molti altri, si riempiva di papaveri. I papaveri,
come tutti sanno, sono rossi. Bellissimo e tipico, il
rosso papavero.
Non ricordo come sia iniziato questa specie di gioco,
ma lo attribuisco alla tipica curiosità infantile;
fatto sta che noi due ci divertivamo ad aprire i boccioli
di papavero per vedere di che colore fossero. Eh già,
perchè non erano tutti rossi, ma molti erano
rosa, rosina, alcuni molto chiari.
Noi ne eravamo affascinate: com’era possibile?
Se i papaveri erano rossi, perchè i bocci erano
rosa? La nostra curiosità assunse la forma di
un esperimento scientifico che necessitava di una quantità
innumerevole di campioni di prova e conseguenti tabelle
statistiche:
chi ne aveva trovati più rosa? E chi più
rossi?
E così , in nome di un quesito scientifico per
noi allora di fondamentale importanza, abbiamo impedito
ad un altrettanto innumerevole quantità di papaveri
di sbocciare e tingere ancor più di rosso i nostri
giorni primaverili.
Onde verdi, dorate, marroni...
Sulle onde di solito si fa surf.
E se non siamo fisicacci alla californiana, di solito
le onde si cerca di saltarle perchè l’acqua
fredda non ci sbatta sulla pancia, facendoci mancare
il fiato; oppure il tentativo fallisce e ci prendono
in pieno, rotolandoci fino a riva.
Da queste parti per˜ le onde che si vedono non
sono quelle azzurre spumose del mare, ma quelle delle
nostre colline, con l’erba alta mossa dal vento,
grano ancora giovane che indorerà d’estate
e verrà tagliato, lasciando di nuovo il posto
al marrone della terra, maggese che viene rimescolato
per una nuova semina e che a volte la mattina presto,
quando è umido o è piovuto, “ ribolleì
coi primi raggi di sole, lasciando salire una suggestiva
nebbiolina.
Su queste stesse onde è possibile fare un altro
tipo di sport, divertentissimo per i bambini veri e
per il bambino che è sempre in noi, ma che mette
a dura prova la pazienza delle mamme e la forza dei
migliori detersivi: rotolare giù per la china.
Passavamo così intere mattinate della domenica;
mio zio che vagava al limitare del bosco con in braccio
il suo fucile, sperando di avvistare qualcosa di mangereccio
a cui sparare, e noi sorelle e cugini vari che lo accompagnavamo,
col solo scopo di rotolarci
giù da ogni verde china che ci trovavamo davanti.
Era un insieme di rotolamenti, sghignazzate e imbrattamenti
vari sotto il calore di un immancabile splendido sole,
ed era semplicemente irresistibile. Non ci stancavamo
mai di sdraiarci su un fianco e lasciarci cadere giù,
rialzarci, risalire il pendio e poi giù di nuovo,
fino a farci girare la testa...
...e poi giallo ginestra, azzurro cielo, celestino non
ti scordar di me... ci sarebbero tanti altri colori
e non solo questi, ma anche profumi, odori, penombre,
sapori... più scrivo e più i ricordi riaffiorano,
come anelli di una stessa catena, attaccati l’uno
all’altro. E dai colori, dal marrone della terra
al marroncino dell’uva passa, dolce e zuccherina,
all’odore alcolico che emanava nella vecchia soffitta,
che quasi ti stordiva...
Mosto dolce zucchero
La nostra soffitta era
enorme, sovrastava tutta la casa ininterrottamente,
quindi aveva l’estensione di tre appartamenti.
Era lassù che
stendevamo l’uva ad appassire, su delle apposite
stuoie fatte da mio nonno. Lui si faceva tutto da sè,
a ben pensare. Anche la nostra casa l’ha costruita
lui, insieme a mio padre, soffitta compresa. Lì
in quella fresca penombra, le ciocche d’uva distese
emanavano il loro aroma dolciastro, ad indicare che
ormai erano pronte per essere trasformate da mio nonno
nel più buon vin
santo che io abbia mai bevuto.
Lui, il nonno paterno,
lo ricordo così , seduto in quella penombra sul
suo basso sgabello, di fronte ai suoi caratelli, che
versava zucchero in una bacinella mentre io gli chiedevo
quanto tempo ci sarebbe voluto
perchè tutta quell’uva
diventasse vin santo.
“ Eeeh, un po'...ì
rispondeva lui, sempre enigmatico quando si trattava
di carpirgli i segreti del suo prezioso vino. Segreti
che sembrava venissero borbottati dal mosto stesso quando
bolliva dentro i caratelli durante il suo invecchiamento,
e se appoggiavi l’orecchio potevi appena appena
sentire...
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