Vede, architetto,
obiettivo primario della nostra amministrazione è
oggi restituire al luogo il ruolo di centro-città.
E’ ormai evidente: non si vive di sola arte, pur
eccelsa e rinascimentale! La piazza non c’è
più, manca. Manca quale luogo di relazione, aggregazione
e vita sociale, ha perso le connotazioni che solo dieci
anni fa la rendevano viva e partecipata. In Giunta si
è discusso su un possibile bando: attraverso
un concorso di idee, vogliamo tentare la strada della
riconoscibilità e valorizzazione. Siamo alla
caccia di una soluzione per arrestarne il degrado e
dare nuova
energia e vitalità
al nostro centro storico.
Così aveva
esordito il Sindaco quel venerdì 2 febbraio nella
saletta al piano primo della residenza municipale. L’assessore
ai lavori pubblici aveva proseguito sciorinando “strategie
di regolamentazione del traffico, opportunità
di riconfigurazione della viabilità pedonale,
ed ovviamente attivazione di sinergie per la riqualificazione
urbanistica degli spazi”. L’assessore al
commercio dal canto suo aveva caldeggiato la definizione
di uno spazio funzionale alle diverse attività:
mercato settimanale e manifestazioni culturali. –
Sa bene, architetto, quante pressioni dai commercianti…e
non dimentichiamoci della sagra del patrono! Ieri tutta
la città era in festa: sono occasioni ed opportunità
da non sottovalutare…
Il Sindaco si era
poi fatto particolarmente affabile e con chiaro intento
di lusinga aveva concluso: Abbiamo pensato a lei: il
suo impegno di questi anni per la cosa pubblica è
stato lodevole. Abbiamo tutti apprezzato la dedizione,
la serietà e la professionalità. Si è
deciso dunque di affidarle l’incarico importante
di elaborare il bando, stabilire i criteri e gli obiettivi
che dovranno portare i professionisti concorrenti a
produrre le preziose idee che noi poi valuteremo. L’onere
per la cittadinanza è alto: un buon bando dunque
è ovviamente la necessaria premessa per una buona
progettazione! Alla creatività dei nostri progettisti
è affidato il ruolo essenziale di tradurre l’equilibrio
tra conservazione e sviluppo. A lei, stimato tecnico
comunale, il compito di indirizzarli e agevolarli nell’intento.
E se limitassimo la partecipazione ai soli toscani,
la qualità ne gioverebbe? Ci pensi! Al lavoro,
dunque, caro architetto, ma non mi preveda altri monumenti
di generali a cavallo o l’ennesimo Dante in estasi
declamatoria, mi raccomando: dovrà essere un
progetto condiviso, fra differenti alternative, alla
ricerca della qualità; dovrà strizzare
l’occhio alle più innovative tendenze dell’architettura
contemporanea e non sfigurare di fronte alle più
recenti realizzazioni d’oltralpe. L’intervento
su una piazza toscana non può che solleticare
qualsiasi progettista: è una vetrina, un trampolino
di lancio, un capitolo in grassetto nel proprio curriculum
professionale! Ogni architetto, anche il meno dotato,
potrà trovare qui terreno fertile per misurarsi
con la propria voglia di fare architettura e con i vari
Brunelleschi, Alberti e compagnia bella.
Osare, finalmente!
Non crede? Ci conto!
Una stretta di
mano, un sorriso tirato prima di accomiatarsi, tornare
in ufficio era inutile, troppo tardi: timbrato il cartellino
era uscito sulla piazza. Passando davanti a Toni il
barbiere, aveva deciso d’entrare, così
di botto, e radersi completamente, dopo mesi, barba
e baffi. E là, tra schiuma e lame, aveva cominciato
a ripensare ai primi concorsi fatti, agli esami universitari,
alle parole che allora riempivano bocca e pagine di
relazioni: “riqualificazione dello spazio pubblico”,
“luogo di aggregazione e di relazione”,
“rapporto nuovo e antico nelle città d’arte”,
“vuoto urbano e contenitore”.
Decise poi di prendersi
una ulteriore pausa, facendo tabula rasa di frasi fatte,
preconcetti, temi di esercitazioni universitarie: al
solito bar, storcendo le labbra per il caffè
rigorosamente amaro, guardando la piazza con l’attenzione
di chi ha in mano le sorti degli elementi, ed è
alla resa dei conti.
Quella era la sua
piazza: Anno Accademico 1986/87, tesi di laurea “Ipotesi
di riconfigurazione dello spazio urbano di Piazza SS
Apostoli, recupero e ridefinizione degli elementi disarmonici“,
relatore il prof. arch. Pier Silvio Gregori, un maestro
dell’architettura italiana e figura un po’
a latere della scuola toscana di migliore tradizione.
Ricordava ancora i capitoli, i temi del progetto: “Memoria
del luogo rinascimentale e piazza contemporanea: interscambio
tra Spazio e Tempo”, “Il sistema dell’accessibilità,
circolazione e sosta: ipotesi di ripristino del corso
d’acqua interrato”, “Il programma
funzionale: da spazio residuale urbano a nuova centralità”.
Quanti rilievi, misurazioni, fotografie, revisioni,
copie, schizzi, idee… e poi quel centodieci cum
laude, l’entusiasmo e la voglia di esercitare,
da professionista…ed il colloquio con il Sindaco
di allora, e coll’Ingegnere capo, ad illustrare
il tema, e la speranza celata di un incarico. Poi il
silenzio. La polvere sui disegni, i mesi di tirocinio,
qualche piccolo progetto per amici e parroco. Infine
il concorso per istruttore direttivo tecnico, piacevolmente
primo in graduatoria, l’assunzione. Era scritto?
La piazza restava nel cassetto, sommersa da istruttorie,
concessioni, abitabilità, sanatorie.
Gli anni erano
passati. E letture, esperienze, discussioni, schizzi,
idee, figli…senso pratico: quel rialzo nella piazza,
dovuto ad un intervento di cinquant’anni prima,
e che da laureando aveva intenzionalmente eliminato
a favore di un ritorno all’originaria altimetria,
oggi l’avrebbe mantenuto, ormai sedimentato nella
lunga lista di eventi, grandi e piccoli che fossero;
e quel sistema di strutture leggere, modulari e omogenee
che aveva proposto per dare ordine e regole alle strutture
all’aperto esistenti, avrebbe certo appiattito,
immiserendola, una ricca seppur disordinata varietà
di oggetti, comunque in divenire.
– Questa
però non è progettazione! Le sembra forse
una risposta adeguata nei confronti di una città
che si affaccia al terzo millennio?– avrebbe detto
il Sindaco.
Già.
Aveva perso da
tempo la spregiudicatezza virginale dell’architetto
giovane. Seduto al Caffè elaborò ironicamente
i punti dell’improbabile bando di concorso che
era stato chiamato a formulare: oggetto, la piazza.
La piazza quale
luogo propizio a coltivare il sogno e la nostalgia,
dove il tempo è sospeso da un gesto, ed ozio
e malinconia istigano al racconto.
La piazza quale
luogo nel quale ritrovare l’ inattingibile che
si manifesta come riuscito in quanto “accaduto”,
lì e non altrove.
La piazza non come
memoria, ma come apparizione, miraggio forse.
Chi avrebbe risposto? Una materia da folli, certo,
o da poeti.
Sui criteri di priorità nell’assegnazione
dell’incarico, prese invece qualche appunto, così
per scherzo. Ci prese gusto, delineò ipotetici
requisiti consigliati, altro da sé: elaborò
uno snello vademecum per il progettista, teorizzando
l’impossibile profilo dell’Architetto da
bando, cerbero di piazza.
“L’Architetto fiorentino è uno Stratega,
a lui il compito di conoscere la costruzione ed il suo
significato, mettere ordine; tessitore di trame, corrompe,
nasconde macchinazioni, ordisce inganni. E’ il
Messo del faraone, che passa e segna le case dei primogeniti,
la cui sorte è già segnata; che non immagina
neppure con quanta leggerezza si gioca la nostra felicità,
quanto fasta può riuscire la sua opera, oppure
nefasta alla mente, ai costumi, al destino di una città,
ed alla sua piazza.
L’Architetto pistoiese è un Tiranno, ama
le murature, le vuole impassibili, sontuose ed esatte,
durature; fabbricatore di muri, amministra terrori,
assolda spie; osserva, ascolta, presenzia. Come per
l’Architetto grossetano, lo scavo, l’intaglio,
lo sfregio fanno parte del sacrificio di fondazione
della sua piazza, che durerà solo se altre mura
periranno, immolate: l’invaso prodotto sarà
teatro e finzione e sarà impossibile distinguere
la terribilità dalla grazia.
L’Architetto pisano è un Alchimista: base
del suo lavoro è la ricerca paziente. Ogni progetto
allude a un maleficio, include un incantesimo, partorisce
uno sgomento sacro. Ogni piazza è cicatrice ed
amuleto: seduce perché non riusciamo a comprenderne
il segreto, il corto circuito tra ciò che ci
attendiamo e ciò che ci viene mostrato. Egli
crea l’insperato incantesimo di una sperimentazione
alchemica senza formule.
L’Architetto aretino è un Costruttore di
profezie: il disegno gli permette di anticipare la verifica
del risultato. Prevedere è predire e predire
è giudizio sul futuro; è scoprire ciò
che la città ancora non sa, è pilotare,
rendersi conto degli effetti indotti che qualsiasi trasformazione
del mondo fisico è destinata a produrre. È
individuare le difficili modalità attraverso
le quali un’intuizione personale può farsi
patrimonio collettivo.
L’Architetto lucchese è un Pirata che,
sbarcato a cercare sogni e oro, incatena la Memoria
allo scoglio come offerta votiva per placare l’ira
della dea Qualità, mostro marino.
L’Architetto massese è un Predatore che
gioca, saccente, su matite e parole, colore e significato;
ha il compito ingrato di imbrigliare una sostanza ribelle,
tagliare via dal “vero” la noia, il banale,
l’inutile o addirittura prendere tutti questi
scarti per intensificarli, nella piazza, fino a renderli
interessanti. Insieme all’Architetto senese è
l’unico capace di relazionare su un vuoto urbano
sottolineandone la “solennità grande e
silenziosa” oppure l’“efebico corpo
di impeccabile e studiata anatomia”.
L’Architetto pratese è un Colitico; come
l’Architetto livornese ha una casa, abitudini,
gusto; raccoglie e stiva per categorie, come tutti;
ma ogni tanto gli parte lo stomaco e non riesce più
a governarlo, vomita e caga dunque dappertutto, buttandosi
nelle strade, anche le più piccole e buie, che
uniscono la città alla piazza, e che sembrano
nate apposta per chi ha urgenza d’appartarsi un
momento, per qualsiasi evenienza, e
lasciare un segno del proprio passaggio.
L’Architetto è Gufo e Sparviero, Cigno
e Cornacchia, Ala e Artiglio: un po’ di tutto,
niente per davvero. Penetra nei recessi più segreti
delle cose, nascosti ai più, e ne manipola la
costruzione: si getta nelle fauci aperte e divora il
mostro dall'interno. E’ astuto, feroce e raro
come l’icneumone”.
Riposta la penna, stracciò il foglio, accortosi
dell’ora tarda: a casa. E basta con i giochetti
di inutili schermaglie di quarantenne deluso. Basta
di tutto. Saldò il conto e lasciò la piazza,
labirinto di inutili attese, sguardi distratti e parole
perdute. Si avviò velocemente lungo il Corso.
Il cameriere raccolse la tazzina, ripulendo il tavolino:
vuotò il posacenere dai brandelli di carta.
Fu quando la notte si fece più fonda soffocando
i residui del giorno nel buio, che il silenzio entrò
nella piazza vuota, aderì ai muri vestendoli
di una fodera diafana ed opaca, una coltre impalpabile
che via via occupò tutto lo spazio. Una quiete
sospesa l’invase e tutta s’infilò
per le porte sbarrate ed i selciati, occupando i portici
arcata per arcata: s’incanalò per le strade,
s’addossò alle botteghe, ricolmò
le logge a ridosso del duomo. Scivolò sul sagrato
come acqua su piume d’anitra, accarezzandone il
laterizio, graffito e spigato.
Il silenzio si alzò e si fece stridulo, indugiando
su cornici e bugnati, finchè ridotto in bisbiglio
tra le inferriate si tramutò in canto, gridando
al cielo ed alle travature, festonate di pipistrelli
e ragnatele pendenti.
Sul percorso a fondovalle della Via Francigena, attraverso
rii e borri, aveva zittito i fruscii nelle macchie,
in città il timbro fu raccolto e ingigantito
in un cavernoso rimbombo, proprio alle terga del Garibaldi
a cavallo, lucido e freddo. Nelle caditoie ai suoi piedi
si inabissò, annegando.
Per l’oscurità fu tempo di partenze.
Con il giorno arrivò un vento sottile, leggero
e stordito, puntò con forza ai cornicioni, ingrossandosi.
Rigettato al fondo, sbandò con violenza a babordo,
rollò impazzito, precipitò ruggendo al
marciapiede. Si accartocciò nei rigagnoli, imitando
il rantolo del tram. Si raccolse e giocò, su
bancali e camini, in orbita barocca e senza peso.
L’incontro di correnti in quota riversò
sulla piazza una cascata di nubi, formazioni in rapidissimo
movimento che scavalcarono il bordo e si abbatterono
sul fondo. Sbalzarono serpeggiando sui duri lastroni
di pietra serena, una roccia povera, pietrosa, come
la cava dalla quale è sbocciata; quindi ripresero
rumorosamente la corsa abbracciate al vento tagliente.
Un palazzo grande come una nave sembrò fluttuare
su onde grandi come una casa, galleggiò sulla
superficie scivolando senza rumore sopra il selciato
inondato. L’enorme scafo mugghiò dalle
imposte socchiuse, le grondaie e i pluviali tesi come
gomene, infine ansante
come una banda di ottoni, sbuffò repentino.
Come nell’unico mare si alzano e si abbassano
le onde e i secoli si confondono, così dalla
piazza le nubi partirono in cateratte selvagge, schiumando
con la storia. Ancora un residuo di burrasca e poi spirò,
assidua e discreta, la brezza.
L’ultimo barlume di buio annegò in un accenno
di canto e d’arpeggio. Il gufo tacque.
Nelle prime ore del mattino la luce si versò
come liquido nello spazio, colmandolo fin nei più
riposti interstizi. Totale, avvolgente, ne modellò
il volume, traforò le murature penetrando dalle
finestre, dalle pareti, dalle fenditure.
La piazza macinò il primo raggio di sole come
un mulino stregato e la luce rivestì le case,
come navate borrominiane, di una diffusa opalescenza,
silenziosa e cangiante. Filtrò fin dentro l’aria
greve del sacello, vellutando le sei storie ed i miracoli
della santa, e qui si fermò, via via intensa.
La luce vinse la battaglia contro le residue nuvole,
appiattite e in ritiro verso occidente, orizzonte allagato.
E poi sole, sole dappertutto.
Era il 3 febbraio, ed il primo Fiat Ducato Transit
era arrivato presto, posizionandosi in direzione della
Torre. Allestite le tende ed il bancone, si cominciò
ad esporre la merce: calzature uomo-donna in strepitosa
offerta. Grandi cartelli gialli d’invito all’acquisto
vennero agganciati ai lati del furgone.
Era giorno di mercato,
come da sempre forse, il sabato, e la piazza si riempì
via via di corpi e di voci, di attese e di sguardi,
sudore e cartoline, naufragando.
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