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"MATERIA DA FOLLI, O DA POETI"
Alberto Arletti


       Vede, architetto, obiettivo primario della nostra amministrazione è oggi restituire al luogo il ruolo di centro-città. E’ ormai evidente: non si vive di sola arte, pur eccelsa e rinascimentale! La piazza non c’è più, manca. Manca quale luogo di relazione, aggregazione e vita sociale, ha perso le connotazioni che solo dieci anni fa la rendevano viva e partecipata. In Giunta si è discusso su un possibile bando: attraverso un concorso di idee, vogliamo tentare la strada della riconoscibilità e valorizzazione. Siamo alla caccia di una soluzione per arrestarne il degrado e dare nuova
       energia e vitalità al nostro centro storico.
       Così aveva esordito il Sindaco quel venerdì 2 febbraio nella saletta al piano primo della residenza municipale. L’assessore ai lavori pubblici aveva proseguito sciorinando “strategie di regolamentazione del traffico, opportunità di riconfigurazione della viabilità pedonale, ed ovviamente attivazione di sinergie per la riqualificazione urbanistica degli spazi”. L’assessore al commercio dal canto suo aveva caldeggiato la definizione di uno spazio funzionale alle diverse attività: mercato settimanale e manifestazioni culturali. – Sa bene, architetto, quante pressioni dai commercianti…e non dimentichiamoci della sagra del patrono! Ieri tutta la città era in festa: sono occasioni ed opportunità da non sottovalutare…
       Il Sindaco si era poi fatto particolarmente affabile e con chiaro intento di lusinga aveva concluso: Abbiamo pensato a lei: il suo impegno di questi anni per la cosa pubblica è stato lodevole. Abbiamo tutti apprezzato la dedizione, la serietà e la professionalità. Si è deciso dunque di affidarle l’incarico importante di elaborare il bando, stabilire i criteri e gli obiettivi che dovranno portare i professionisti concorrenti a produrre le preziose idee che noi poi valuteremo. L’onere per la cittadinanza è alto: un buon bando dunque è ovviamente la necessaria premessa per una buona progettazione! Alla creatività dei nostri progettisti è affidato il ruolo essenziale di tradurre l’equilibrio tra conservazione e sviluppo. A lei, stimato tecnico comunale, il compito di indirizzarli e agevolarli nell’intento. E se limitassimo la partecipazione ai soli toscani, la qualità ne gioverebbe? Ci pensi! Al lavoro, dunque, caro architetto, ma non mi preveda altri monumenti di generali a cavallo o l’ennesimo Dante in estasi declamatoria, mi raccomando: dovrà essere un progetto condiviso, fra differenti alternative, alla ricerca della qualità; dovrà strizzare l’occhio alle più innovative tendenze dell’architettura contemporanea e non sfigurare di fronte alle più recenti realizzazioni d’oltralpe. L’intervento su una piazza toscana non può che solleticare qualsiasi progettista: è una vetrina, un trampolino di lancio, un capitolo in grassetto nel proprio curriculum professionale! Ogni architetto, anche il meno dotato, potrà trovare qui terreno fertile per misurarsi con la propria voglia di fare architettura e con i vari Brunelleschi, Alberti e compagnia bella.
       Osare, finalmente! Non crede? Ci conto!
       Una stretta di mano, un sorriso tirato prima di accomiatarsi, tornare in ufficio era inutile, troppo tardi: timbrato il cartellino era uscito sulla piazza. Passando davanti a Toni il barbiere, aveva deciso d’entrare, così di botto, e radersi completamente, dopo mesi, barba e baffi. E là, tra schiuma e lame, aveva cominciato a ripensare ai primi concorsi fatti, agli esami universitari, alle parole che allora riempivano bocca e pagine di relazioni: “riqualificazione dello spazio pubblico”, “luogo di aggregazione e di relazione”, “rapporto nuovo e antico nelle città d’arte”, “vuoto urbano e contenitore”.
       Decise poi di prendersi una ulteriore pausa, facendo tabula rasa di frasi fatte, preconcetti, temi di esercitazioni universitarie: al solito bar, storcendo le labbra per il caffè rigorosamente amaro, guardando la piazza con l’attenzione di chi ha in mano le sorti degli elementi, ed è alla resa dei conti.
       Quella era la sua piazza: Anno Accademico 1986/87, tesi di laurea “Ipotesi di riconfigurazione dello spazio urbano di Piazza SS Apostoli, recupero e ridefinizione degli elementi disarmonici“, relatore il prof. arch. Pier Silvio Gregori, un maestro dell’architettura italiana e figura un po’ a latere della scuola toscana di migliore tradizione. Ricordava ancora i capitoli, i temi del progetto: “Memoria del luogo rinascimentale e piazza contemporanea: interscambio tra Spazio e Tempo”, “Il sistema dell’accessibilità, circolazione e sosta: ipotesi di ripristino del corso d’acqua interrato”, “Il programma funzionale: da spazio residuale urbano a nuova centralità”. Quanti rilievi, misurazioni, fotografie, revisioni, copie, schizzi, idee… e poi quel centodieci cum laude, l’entusiasmo e la voglia di esercitare, da professionista…ed il colloquio con il Sindaco di allora, e coll’Ingegnere capo, ad illustrare il tema, e la speranza celata di un incarico. Poi il silenzio. La polvere sui disegni, i mesi di tirocinio, qualche piccolo progetto per amici e parroco. Infine il concorso per istruttore direttivo tecnico, piacevolmente primo in graduatoria, l’assunzione. Era scritto? La piazza restava nel cassetto, sommersa da istruttorie, concessioni, abitabilità, sanatorie.
       Gli anni erano passati. E letture, esperienze, discussioni, schizzi, idee, figli…senso pratico: quel rialzo nella piazza, dovuto ad un intervento di cinquant’anni prima, e che da laureando aveva intenzionalmente eliminato a favore di un ritorno all’originaria altimetria, oggi l’avrebbe mantenuto, ormai sedimentato nella lunga lista di eventi, grandi e piccoli che fossero; e quel sistema di strutture leggere, modulari e omogenee che aveva proposto per dare ordine e regole alle strutture all’aperto esistenti, avrebbe certo appiattito, immiserendola, una ricca seppur disordinata varietà di oggetti, comunque in divenire.
       – Questa però non è progettazione! Le sembra forse una risposta adeguata nei confronti di una città che si affaccia al terzo millennio?– avrebbe detto il Sindaco.
       Già.
       Aveva perso da tempo la spregiudicatezza virginale dell’architetto giovane. Seduto al Caffè elaborò ironicamente i punti dell’improbabile bando di concorso che era stato chiamato a formulare: oggetto, la piazza.
       La piazza quale luogo propizio a coltivare il sogno e la nostalgia, dove il tempo è sospeso da un gesto, ed ozio e malinconia istigano al racconto.
       La piazza quale luogo nel quale ritrovare l’ inattingibile che si manifesta come riuscito in quanto “accaduto”, lì e non altrove.
       La piazza non come memoria, ma come apparizione, miraggio forse.

Chi avrebbe risposto? Una materia da folli, certo, o da poeti.
       Sui criteri di priorità nell’assegnazione dell’incarico, prese invece qualche appunto, così per scherzo. Ci prese gusto, delineò ipotetici requisiti consigliati, altro da sé: elaborò uno snello vademecum per il progettista, teorizzando l’impossibile profilo dell’Architetto da bando, cerbero di piazza.
       “L’Architetto fiorentino è uno Stratega, a lui il compito di conoscere la costruzione ed il suo significato, mettere ordine; tessitore di trame, corrompe, nasconde macchinazioni, ordisce inganni. E’ il Messo del faraone, che passa e segna le case dei primogeniti, la cui sorte è già segnata; che non immagina neppure con quanta leggerezza si gioca la nostra felicità, quanto fasta può riuscire la sua opera, oppure nefasta alla mente, ai costumi, al destino di una città, ed alla sua piazza.
       L’Architetto pistoiese è un Tiranno, ama le murature, le vuole impassibili, sontuose ed esatte, durature; fabbricatore di muri, amministra terrori, assolda spie; osserva, ascolta, presenzia. Come per l’Architetto grossetano, lo scavo, l’intaglio, lo sfregio fanno parte del sacrificio di fondazione della sua piazza, che durerà solo se altre mura periranno, immolate: l’invaso prodotto sarà teatro e finzione e sarà impossibile distinguere la terribilità dalla grazia.
       L’Architetto pisano è un Alchimista: base del suo lavoro è la ricerca paziente. Ogni progetto allude a un maleficio, include un incantesimo, partorisce uno sgomento sacro. Ogni piazza è cicatrice ed amuleto: seduce perché non riusciamo a comprenderne il segreto, il corto circuito tra ciò che ci attendiamo e ciò che ci viene mostrato. Egli crea l’insperato incantesimo di una sperimentazione alchemica senza formule.
       L’Architetto aretino è un Costruttore di profezie: il disegno gli permette di anticipare la verifica del risultato. Prevedere è predire e predire è giudizio sul futuro; è scoprire ciò che la città ancora non sa, è pilotare, rendersi conto degli effetti indotti che qualsiasi trasformazione del mondo fisico è destinata a produrre. È individuare le difficili modalità attraverso le quali un’intuizione personale può farsi patrimonio collettivo.
       L’Architetto lucchese è un Pirata che, sbarcato a cercare sogni e oro, incatena la Memoria allo scoglio come offerta votiva per placare l’ira della dea Qualità, mostro marino.
       L’Architetto massese è un Predatore che gioca, saccente, su matite e parole, colore e significato; ha il compito ingrato di imbrigliare una sostanza ribelle, tagliare via dal “vero” la noia, il banale, l’inutile o addirittura prendere tutti questi scarti per intensificarli, nella piazza, fino a renderli interessanti. Insieme all’Architetto senese è l’unico capace di relazionare su un vuoto urbano sottolineandone la “solennità grande e silenziosa” oppure l’“efebico corpo di impeccabile e studiata anatomia”.
       L’Architetto pratese è un Colitico; come l’Architetto livornese ha una casa, abitudini, gusto; raccoglie e stiva per categorie, come tutti; ma ogni tanto gli parte lo stomaco e non riesce più a governarlo, vomita e caga dunque dappertutto, buttandosi nelle strade, anche le più piccole e buie, che uniscono la città alla piazza, e che sembrano nate apposta per chi ha urgenza d’appartarsi un momento, per qualsiasi evenienza, e
       lasciare un segno del proprio passaggio.
       L’Architetto è Gufo e Sparviero, Cigno e Cornacchia, Ala e Artiglio: un po’ di tutto, niente per davvero. Penetra nei recessi più segreti delle cose, nascosti ai più, e ne manipola la costruzione: si getta nelle fauci aperte e divora il mostro dall'interno. E’ astuto, feroce e raro come l’icneumone”.

Riposta la penna, stracciò il foglio, accortosi dell’ora tarda: a casa. E basta con i giochetti di inutili schermaglie di quarantenne deluso. Basta di tutto. Saldò il conto e lasciò la piazza, labirinto di inutili attese, sguardi distratti e parole perdute. Si avviò velocemente lungo il Corso.
       Il cameriere raccolse la tazzina, ripulendo il tavolino:
       vuotò il posacenere dai brandelli di carta.

Fu quando la notte si fece più fonda soffocando i residui del giorno nel buio, che il silenzio entrò nella piazza vuota, aderì ai muri vestendoli di una fodera diafana ed opaca, una coltre impalpabile che via via occupò tutto lo spazio. Una quiete sospesa l’invase e tutta s’infilò per le porte sbarrate ed i selciati, occupando i portici arcata per arcata: s’incanalò per le strade, s’addossò alle botteghe, ricolmò le logge a ridosso del duomo. Scivolò sul sagrato come acqua su piume d’anitra, accarezzandone il laterizio, graffito e spigato.
       Il silenzio si alzò e si fece stridulo, indugiando su cornici e bugnati, finchè ridotto in bisbiglio tra le inferriate si tramutò in canto, gridando al cielo ed alle travature, festonate di pipistrelli e ragnatele pendenti.
       Sul percorso a fondovalle della Via Francigena, attraverso rii e borri, aveva zittito i fruscii nelle macchie, in città il timbro fu raccolto e ingigantito in un cavernoso rimbombo, proprio alle terga del Garibaldi a cavallo, lucido e freddo. Nelle caditoie ai suoi piedi si inabissò, annegando.
       Per l’oscurità fu tempo di partenze.
       Con il giorno arrivò un vento sottile, leggero e stordito, puntò con forza ai cornicioni, ingrossandosi. Rigettato al fondo, sbandò con violenza a babordo, rollò impazzito, precipitò ruggendo al marciapiede. Si accartocciò nei rigagnoli, imitando il rantolo del tram. Si raccolse e giocò, su bancali e camini, in orbita barocca e senza peso.
       L’incontro di correnti in quota riversò sulla piazza una cascata di nubi, formazioni in rapidissimo movimento che scavalcarono il bordo e si abbatterono sul fondo. Sbalzarono serpeggiando sui duri lastroni di pietra serena, una roccia povera, pietrosa, come la cava dalla quale è sbocciata; quindi ripresero rumorosamente la corsa abbracciate al vento tagliente.
       Un palazzo grande come una nave sembrò fluttuare su onde grandi come una casa, galleggiò sulla superficie scivolando senza rumore sopra il selciato inondato. L’enorme scafo mugghiò dalle imposte socchiuse, le grondaie e i pluviali tesi come gomene, infine ansante
       come una banda di ottoni, sbuffò repentino.
       Come nell’unico mare si alzano e si abbassano le onde e i secoli si confondono, così dalla piazza le nubi partirono in cateratte selvagge, schiumando con la storia. Ancora un residuo di burrasca e poi spirò, assidua e discreta, la brezza.
       L’ultimo barlume di buio annegò in un accenno di canto e d’arpeggio. Il gufo tacque.
       Nelle prime ore del mattino la luce si versò come liquido nello spazio, colmandolo fin nei più riposti interstizi. Totale, avvolgente, ne modellò il volume, traforò le murature penetrando dalle finestre, dalle pareti, dalle fenditure.
       La piazza macinò il primo raggio di sole come un mulino stregato e la luce rivestì le case, come navate borrominiane, di una diffusa opalescenza, silenziosa e cangiante. Filtrò fin dentro l’aria greve del sacello, vellutando le sei storie ed i miracoli della santa, e qui si fermò, via via intensa.
       La luce vinse la battaglia contro le residue nuvole, appiattite e in ritiro verso occidente, orizzonte allagato.
       E poi sole, sole dappertutto.

Era il 3 febbraio, ed il primo Fiat Ducato Transit era arrivato presto, posizionandosi in direzione della Torre. Allestite le tende ed il bancone, si cominciò ad esporre la merce: calzature uomo-donna in strepitosa offerta. Grandi cartelli gialli d’invito all’acquisto vennero agganciati ai lati del furgone.
       Era giorno di mercato, come da sempre forse, il sabato, e la piazza si riempì via via di corpi e di voci, di attese e di sguardi, sudore e cartoline, naufragando.


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