Poi il pomeriggio decisero di salire fino a Roccatederighi.
Non che n’avessero bisogno, o particolarmente
voglia, ma erano appena pochi chilometri in più
e si sarebbero potuti fermare a far raffreddare il motore
e bere qualcosa. Venendo da Siena e prima di ridiscendere
nella piana tra l’Ombrone e il padule del Raspollino,
alle tre di un pomeriggio d’inizio luglio, l’effetto
che si aveva salendo sul colle di Roccatederighi e guardando
a sud ovest, verso la piana di Grosseto, era quello
di un immenso plastico a rilievo, con campi piatti,
colli improvvisi e aguzzi e intorno verde e azzurro.
Un effetto quasi innaturale. Tutt’altra faccenda
guardando a nord e a est: colline, monti e boschi e
poi la storia in mezzo, a complicare la vista. Ma tra
i vicoli di Roccatederighi stavano bene, dopo una settimana
di computer, timbri e scartoffie; e fuori del bar, seduti
sotto un loggiato in miniatura, potevano bere qualcosa
di ghiacciato e fumarsi un paio di sigarette nel silenzio
più assoluto. E si affacciarono alla torre e
guardarono a sud, verso Montemassi. Poi bevvero ancora
e si accesero un’altra sigaretta, senza aver veramente
voglia di fumarla, storditi dai luoghi e dalla storia.
E così decisero, per quella sera, di fermarsi
a Roccatederighi. Avrebbero pernottato alla locanda
dell’Orso. Montemassi era là in fondo,
a poco più di un’ora di cavallo, ma non
avevano voglia di avventurarsi a quell’ora della
sera, a far da esca ai lupi e col rischio d’esser
fatti prigionieri dalle ronde senesi. Quantunque non
fosse ancora completamente buio, era pur sempre zona
di guerra. Chi glielo avrebbe spiegato al comandante
che loro erano inviati dal maestro Simone, a fare il
sopralluogo e disegnare i bozzetti per la depentura.
Mi raccomando – aveva detto Simone a Donato –
voglio che disegnate ogni particolare del campo. Non
i cavalieri, non le schiere o le masnade. Al massimo
il Capitano di guerra; ma poi a lui ci penso io; ho
già in mente la sua figura, lo conosco. No: voglio
le strutture, che quelle sono l’esempio della
potenza della nostra Repubblica e dei Signori Nove.
E voglio ogni dettaglio del paesaggio e delle strutture,
foss’anche una sola vigna; voglio ogni pietra,
ogni stendardo, ogni chiodo. Voglio che non vi sfugga
nulla, poi io metterò tutto sul fresco.
Era pericoloso, per loro due, avventurarsi all’imbrunire,
sulla strada sbilanciata tra sterpaglie, lecci e pattuglie
di soldati. I Signori Nove del Palazzo del Concistoro
avevano in ogni caso incaricato lui, Simone di Lorenzo
di Martino, di recarsi a Montemassi per osservare, misurare,
prospettare e poi fare un buon fresco nella sala del
Consiglio. Chi mai aveva sentito parlare, in quel campo
militare, di Donato di Lorenzo o di Lippo Memmi di Filippuccio.
Li avrebbero di certo arrestati o addirittura passati
per le armi, come spie che tentavano di attraversare
le linee d’assedio. Sarebbe stata una bella iattura
esser fatti prigionieri dai soldati della Repubblica
e processati come emissari imperiali. Un paio di settimane
prima n’avevano acciuffati sei, travestiti da
contadini, che con la scusa di allacciare le vigne in
prossimità del campo, tentavano di comunicare
con le vedette del castello. Castruccio degli Antelminelli
non aveva smesso di tramare e spediva ancora uomini
ad aver notizie dei suoi alleati ghibellini in Maremma.
Quei sei li avevano impiccati sul posto, ai pali più
alti della vigna a tendone. Tanto tanto se Donato e
Lippo fossero stati fermati dai senesi: forse qualcuno
li avrebbe riconosciuti e la faccenda si sarebbe chiusa
con lo spedire una staffetta a Siena ad accertare i
fatti. E se invece, per disgrazia loro, fossero andati
a sbattere in una pattuglia gigliata? Firenze aveva
mandato in prestito, per quell’assedio, quasi
400 cavalieri. Quelli, sicuramente, non avrebbero inteso
ragioni, più avidi di mostrar zelo di fronte
al Capitano di guerra che di darsi veramente da fare
in combattimento. Li avrebbero fatti fuori e poi, il
mattino seguente, si sarebbero vantati di aver accoppato
due marrani ghibellini. Per i fiorentini sarebbero comunque
stati due senesi in meno sulla terra: l’alleanza
di ora va bene, ma Montaperti continua a bruciare!
No, Lippo e Donato eran lì per lavorare e non
per farsi prendere; meglio non rischiare. Si sarebbero
mossi appena giorno, o forse un po’ più
tardi, che in quel mese alle cinque era già luce
piena e loro eran giovani e non intendevano chiuder
la sera troppo presto e da soli; alla locanda ci doveva
esser di sicuro qualche giovane volenterosa di passar
la notte con loro e così non si sarebbero svegliati
prima che l’oste non fosse venuto a buttarli fuori.
Ad ogni modo, il mattino dopo avrebbero coperto quel
che restava di strada fino all’accampamento e
avrebbero convinto il comandante di ronda dell’autenticità
delle proprie carte. Col giorno le ragioni si spiegano
meglio che col buio.
Dice lo storico che risiede la rocca sopra uno scoglio
di Gabbro sporgente dalla cima di un monte. Donato e
Lippo lo videro, Montemassi, su quel cucuzzolo che domina
tutta la pianura a ponente, fino al mare. Il mare; loro
non c’erano mai arrivati, tanto lontano; una striscia
azzurra racchiusa tra due braccia di monti e sopra la
piana questo castello, tra colli e boschi e silenzio,
che i Nove, chissà perché, avevan deciso
che dovesse essere della Repubblica e di nessun altro.
A lavoro finito avrebbero potuto arrivarci, al mare;
a vederlo da lì sembrava di poterlo toccare,
neanche una giornata di cavallo, tra l’erba alta
e i fischi dei merli e il riverbero della calura di
luglio sulla terra secca; e poi sarebbero tornati a
Siena, coi disegni per Simone.
Lo videro dalla strada, Montemassi e videro il via vai
di soldati tra la gola e la collina. Ma ce n’eran
due, di castelli e poi c’era l’accampamento
e tutt’intorno un alto steccato con insegne, scudi,
lance e sentinelle. Donato e Lippo si guardarono: Simone
aveva parlato di un solo castello. Donato tirò
fuori dalla bisaccia uno stendardo bianco e nero e lo
alzò sopra la testa. Quando incontrarono la prima
ronda, cinque fanti con una balestra, una berdica e
le forche, coi camagli delle cuffie pendenti sul collo
e non indossati per via del caldo, Donato porse all’ufficiale
la carta firmata da Simone e con la mano aperta provò
a schiacciare una mosca che gli si era posata sulla
fronte. Mancata. Lippo guardava attorno, al brulicare
di fanti e cavalieri affaccendati per il campo. Un uomo
della ronda gli si avvicinò e girò attorno
al suo cavallo. Si fermò e sguainò la
spada. Smonta – gli intimò – che
porti sotto la bisaccia? I miei arnesi – disse
Lippo; e il sudore gli si ghiacciò. Che arnesi;
tu porti un’arma, una balestra. No, è un’asta;
mi serve per le misure e li squadri.
Il comandante restituì a Donato la lettera, si
rimboccò la tunica attorno alla cintura che gli
pendeva dal lato della spada e si avvicinò al
suo fante. Villano – gli disse – questi
due signori son qui per conto della Repubblica e del
maestro Simone di Martino, che deve
far la depentura
nostra e di Montemassi.
Io non conosco nessun maestro Simone – brontolò
il fante – e se questi due sbarbatelli vengono
a metter naso nelle cose militari, io li accoppo; non
c’è tempo qui per dipingere o per far da
balia ai depentori; qui si combatte, si combatte da
sette mesi. E come mai – disse Lippo – in
sette mesi non siete stati buoni di prender quattro
mura poggiate su un gabbro? E’ questa la potenza
delle nostre schiere? O forse il nobile Signor Capitano
di guerra ha paura di andare all’assalto? Bada
come parli – gli intimò il comandante –
Messer Guido di Ricci è il più nobile
e il più coraggioso Capitano che la Repubblica
abbia mai avuto; lui vien da quel di Reggio e ha traversato
li Appennini per comandare le nostre schiere. O per
aver dalla Repubblica – replicò ancora
Lippo – più lire di quante ne prendano
i Nove messi insieme? Basta, taci o ti faccio arrestare;
le vostre carte m’impongono di lasciarvi passare
e io ho rispetto dei Signori Nove e di maestro Simone,
ma sta’ attento a far bene il tuo lavoro e a non
impicciarti delle nostre cose o sarà peggio per
te; ognuno faccia l’opra sua e poi si vedrà
se la ragione è nell’assalto o nell’assedio.
Che castello è quel di destra – chiese
Donato per calmare l’aria – che porta la
Balzana di Siena? E’ già caduto in mano
nostra? No – sorrise il comandante – quella
è la nostra bastia; non sai che messer Lando
di Pietro, l’architettore, mandato dal Consiglio
della Campana per li affari d’urgenza, costruì
quel battifolle in meno di 40 giorni, per la sicurezza
di noialtri senesi durante l’assedio? A cose fatte
i Signori Nove decideranno se rovinarlo o, invece, guastare
il cassero di Montemassi e rafforzare la bastia. La
vedi quella macchina? Quale macchina – chiese
Donato. Quella che sta dentro al nostro battifolle e
ne supera gli spalti. E’ il trabucco, la macchina
da guerra più distruttiva che sia mai stata inventata;
ha un contrappeso mobile di ventimila libbre e per azionarla
ci vogliono 50 serventi; ogni dieci minuti può
lanciare una pietra di 300 libbre a più di cento
metri; se il nostro Signor Capitano, che il Magistrato
di Balia di guerra ha spedito insieme a noi in questa
regione malsana a metter pace e a far sicure le strade
sino a Talamone, avesse voluto, avremmo già rovinato
quelle mura da sei mesi; ma la Repubblica non vuol distruggere
il cassero, lo vuol prendere intero; ogni tanto gli
lanciamo dentro qualche carogna d’animale o lo
sterco dei nostri cavalli: noi ci divertiamo e quei
porci di ghibellini s’appestano; mettilo nei tuoi
disegni, il trabucco e di’ a maestro Simone di
non lasciarlo fuori dal suo fresco; il trabucco ci farà
vincer quest’assedio e con l’aiuto della
Vergine, ma di più con le lire della Biccherna,
ce la faremo a riportar vittoria e a riaprire la via
del mare ai mercanti, che la carestia di quest’anno
è troppo dura per farla continuare. E a che serve
quel lungo steccato – chiese Donato – con
armi e armigeri, che circonda tanto il cassero che la
nostra bastia e il nostro campo? Messer Guidoriccio
l’ha voluto – spiegò il comandante
con l’aria di chi si vanta di essere a parte di
così tante informazioni – così che
quegli impudenti non riescano a scappare né ricevan
aiuti da nessuno, né dal Bavaro né da
Castruccio; quello, l’Antelminelli, è un
demonio; l’ho visto nella lotta, tre anni fa,
ad Altopascio; giuro che se non fosse un dannato imperiale
vorrei averlo dalla nostra parte; un gran guerriero
e un gran signore; se tra 192 anni un dotto di cose
militari e politiche scriverà la Vita di Castruccio
Castracani da Lucca, io dico che non dovrà tralasciare
che ei non fu inferiore né a Filippo di Macedonia
padre di Alessandro, né a Scipione di Roma e
sanza dubbio arebbe superato l’uno e l’altro
se, in cambio di Lucca, egli avessi avuto per sua patria
Macedonia o Roma; ma ora il nostro Capitano ci porterà
alla vittoria: c’è andata bene che Castruccio
abbia avuto da fare a prender Montecatini e dicono si
sia buscato le febbri e gli sia rimasto poco da campare.
Donato e Lippo superarono lo steccato scortati da un
fante della ronda. E tu come ti chiami – gli chiese
Lippo. Io sono Jacopo di Giovanni Iazzi e vengo da Castel
d’Arbia – rispose quello. Dimmi Jacopo,
da quanto tempo non vai a casa? Da 107 giorni –
si lamentò il fante – e ho ancora quaranta
giorni davanti, prima d’avere un’altra licenza;
ma spero che presto si levi il campo; si dice che oramai
quelli là dentro non abbian più niente
da mangiare e i morti li sotterrino dentro le mura;
sarà question di poco; il nostro Signor Capitano
ha fatto bene i suoi conti e non ha nemmeno rischiato
tanto; quando il Bavaro e l’Antelminelli son passati
qui vicino per andare a Roma, c’ha lasciati tutti
dentro il battifolle, pur di non interrompere l’assedio
e lui e i nobili si son rifugiati a Roccastrada e a
Montepescali. Che tipo è questo messer Guidoriccio
di messer Niccolò dei Fogliani – gli domandò
Lippo. Io l’ho visto solo da lontano – disse
Jacopo – ben rotondo e pasciuto; la sua guardia
non fa avvicinare nessuno, tranne i comandanti delle
compagnie. Noi dovremmo vederlo però –
si rivolse Lippo a Donato – per fare uno schizzo.
Non ha importanza – disse Donato –; Simone
ha già tutto in testa per la depentura del Capitano
e del suo destriero bianco; noi dobbiam preoccuparci
solo del campo. Un’ultima cosa, Jacopo –
chiese Lippo – c’è dell’acqua
qui vicino? Sì, mezz’ora a piedi, là,
tra la bastia e il castello, in quella gola, c’è
la sorgente del Pisciolino; ma state attenti alle nostre
ronde, quelli non scherzano e vi accoppan come nulla;
non voglion ficcanaso intorno e dopo sette mesi d’assedio
vi passano a fil di spada senza fiatare. E tenete d’occhio
quella bertesca che dalla torre del castello guarda
il nostro campo: non si muove foglia che loro cominciano
a lanciar pietre, quadrelli e a precipitar sabbia rovente
dalle caditoie.
Donato e Lippo presero tutte le misure, disegnarono
i bozzetti, tracciarono gli angoli e le prospettive
delle tende, del cassero, del battifolle, squadrarono
e traguardarono. Lo fecero così bene che Simone
fu preso dalla voglia di andar di persona a vedere il
campo, prima di cominciar la depentura. Appena in tempo:
neanche un mese e il castello si arrese e il battifolle
fu disfatto. Simone aveva due anni di tempo per dipingere
Guido; ma alla fine fece un buon fresco nel Palazzo
pubblico, come i Nove gli avevan chiesto, perchè
Montemassi e Sassoforte li fero dipegnere i Signori
Nove di Siena, a l’esenplo come erano, i quali
furono dipenti nel palazo grande di sopra nella sala,
e fu Maestro Simone di Lorenzo da Siena ottimo maestro,
fu d’aprile 1330.
Finì che
si erano addormentati sotto il porticato di Roccatederighi,
sopra la piana e i campi appiattiti dal sole e dirimpetto
ai colli boscosi e azzurri, con alle spalle i monti
e la storia. Si erano addormentati seduti e con le sigarette
accese. L’uomo del bar venne a svegliarli e a
portar via i bicchieri vuoti. Quando si misero in piedi
era ancora caldo e spirava un po’ di grecale.
Veniva da Montemassi. |