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"IL VENTO A MONTEMASSI"
Fabrizio Poggi

      

       Poi il pomeriggio decisero di salire fino a Roccatederighi. Non che n’avessero bisogno, o particolarmente voglia, ma erano appena pochi chilometri in più e si sarebbero potuti fermare a far raffreddare il motore e bere qualcosa. Venendo da Siena e prima di ridiscendere nella piana tra l’Ombrone e il padule del Raspollino, alle tre di un pomeriggio d’inizio luglio, l’effetto che si aveva salendo sul colle di Roccatederighi e guardando a sud ovest, verso la piana di Grosseto, era quello di un immenso plastico a rilievo, con campi piatti, colli improvvisi e aguzzi e intorno verde e azzurro. Un effetto quasi innaturale. Tutt’altra faccenda guardando a nord e a est: colline, monti e boschi e poi la storia in mezzo, a complicare la vista. Ma tra i vicoli di Roccatederighi stavano bene, dopo una settimana di computer, timbri e scartoffie; e fuori del bar, seduti sotto un loggiato in miniatura, potevano bere qualcosa di ghiacciato e fumarsi un paio di sigarette nel silenzio più assoluto. E si affacciarono alla torre e guardarono a sud, verso Montemassi. Poi bevvero ancora e si accesero un’altra sigaretta, senza aver veramente voglia di fumarla, storditi dai luoghi e dalla storia.

       E così decisero, per quella sera, di fermarsi a Roccatederighi. Avrebbero pernottato alla locanda dell’Orso. Montemassi era là in fondo, a poco più di un’ora di cavallo, ma non avevano voglia di avventurarsi a quell’ora della sera, a far da esca ai lupi e col rischio d’esser fatti prigionieri dalle ronde senesi. Quantunque non fosse ancora completamente buio, era pur sempre zona di guerra. Chi glielo avrebbe spiegato al comandante che loro erano inviati dal maestro Simone, a fare il sopralluogo e disegnare i bozzetti per la depentura. Mi raccomando – aveva detto Simone a Donato – voglio che disegnate ogni particolare del campo. Non i cavalieri, non le schiere o le masnade. Al massimo il Capitano di guerra; ma poi a lui ci penso io; ho già in mente la sua figura, lo conosco. No: voglio le strutture, che quelle sono l’esempio della potenza della nostra Repubblica e dei Signori Nove. E voglio ogni dettaglio del paesaggio e delle strutture, foss’anche una sola vigna; voglio ogni pietra, ogni stendardo, ogni chiodo. Voglio che non vi sfugga nulla, poi io metterò tutto sul fresco.

       Era pericoloso, per loro due, avventurarsi all’imbrunire, sulla strada sbilanciata tra sterpaglie, lecci e pattuglie di soldati. I Signori Nove del Palazzo del Concistoro avevano in ogni caso incaricato lui, Simone di Lorenzo di Martino, di recarsi a Montemassi per osservare, misurare, prospettare e poi fare un buon fresco nella sala del Consiglio. Chi mai aveva sentito parlare, in quel campo militare, di Donato di Lorenzo o di Lippo Memmi di Filippuccio. Li avrebbero di certo arrestati o addirittura passati per le armi, come spie che tentavano di attraversare le linee d’assedio. Sarebbe stata una bella iattura esser fatti prigionieri dai soldati della Repubblica e processati come emissari imperiali. Un paio di settimane prima n’avevano acciuffati sei, travestiti da contadini, che con la scusa di allacciare le vigne in prossimità del campo, tentavano di comunicare con le vedette del castello. Castruccio degli Antelminelli non aveva smesso di tramare e spediva ancora uomini ad aver notizie dei suoi alleati ghibellini in Maremma. Quei sei li avevano impiccati sul posto, ai pali più alti della vigna a tendone. Tanto tanto se Donato e Lippo fossero stati fermati dai senesi: forse qualcuno li avrebbe riconosciuti e la faccenda si sarebbe chiusa con lo spedire una staffetta a Siena ad accertare i fatti. E se invece, per disgrazia loro, fossero andati a sbattere in una pattuglia gigliata?
       Firenze aveva mandato in prestito, per quell’assedio, quasi 400 cavalieri. Quelli, sicuramente, non avrebbero inteso ragioni, più avidi di mostrar zelo di fronte al Capitano di guerra che di darsi veramente da fare in combattimento. Li avrebbero fatti fuori e poi, il mattino seguente, si sarebbero vantati di aver accoppato due marrani ghibellini. Per i fiorentini sarebbero comunque stati due senesi in meno sulla terra: l’alleanza di ora va bene, ma Montaperti continua a bruciare!

       No, Lippo e Donato eran lì per lavorare e non per farsi prendere; meglio non rischiare. Si sarebbero mossi appena giorno, o forse un po’ più tardi, che in quel mese alle cinque era già luce piena e loro eran giovani e non intendevano chiuder la sera troppo presto e da soli; alla locanda ci doveva esser di sicuro qualche giovane volenterosa di passar la notte con loro e così non si sarebbero svegliati prima che l’oste non fosse venuto a buttarli fuori. Ad ogni modo, il mattino dopo avrebbero coperto quel che restava di strada fino all’accampamento e avrebbero convinto il comandante di ronda dell’autenticità delle proprie carte. Col giorno le ragioni si spiegano meglio che col buio.

       Dice lo storico che risiede la rocca sopra uno scoglio di Gabbro sporgente dalla cima di un monte. Donato e Lippo lo videro, Montemassi, su quel cucuzzolo che domina tutta la pianura a ponente, fino al mare. Il mare; loro non c’erano mai arrivati, tanto lontano; una striscia azzurra racchiusa tra due braccia di monti e sopra la piana questo castello, tra colli e boschi e silenzio, che i Nove, chissà perché, avevan deciso che dovesse essere della Repubblica e di nessun altro. A lavoro finito avrebbero potuto arrivarci, al mare; a vederlo da lì sembrava di poterlo toccare, neanche una giornata di cavallo, tra l’erba alta e i fischi dei merli e il riverbero della calura di luglio sulla terra secca; e poi sarebbero tornati a Siena, coi disegni per Simone.

       Lo videro dalla strada, Montemassi e videro il via vai di soldati tra la gola e la collina. Ma ce n’eran due, di castelli e poi c’era l’accampamento e tutt’intorno un alto steccato con insegne, scudi, lance e sentinelle. Donato e Lippo si guardarono: Simone aveva parlato di un solo castello. Donato tirò fuori dalla bisaccia uno stendardo bianco e nero e lo alzò sopra la testa. Quando incontrarono la prima ronda, cinque fanti con una balestra, una berdica e le forche, coi camagli delle cuffie pendenti sul collo e non indossati per via del caldo, Donato porse all’ufficiale la carta firmata da Simone e con la mano aperta provò a schiacciare una mosca che gli si era posata sulla fronte. Mancata. Lippo guardava attorno, al brulicare di fanti e cavalieri affaccendati per il campo. Un uomo della ronda gli si avvicinò e girò attorno al suo cavallo. Si fermò e sguainò la spada. Smonta – gli intimò – che porti sotto la bisaccia?
       I miei arnesi – disse Lippo; e il sudore gli si ghiacciò. Che arnesi; tu porti un’arma, una balestra. No, è un’asta; mi serve per le misure e li squadri.

       Il comandante restituì a Donato la lettera, si rimboccò la tunica attorno alla cintura che gli pendeva dal lato della spada e si avvicinò al suo fante. Villano – gli disse – questi due signori son qui per conto della Repubblica e del maestro Simone di Martino, che deve
       far la depentura nostra e di Montemassi.

       Io non conosco nessun maestro Simone – brontolò il fante – e se questi due sbarbatelli vengono a metter naso nelle cose militari, io li accoppo; non c’è tempo qui per dipingere o per far da balia ai depentori; qui si combatte, si combatte da sette mesi. E come mai – disse Lippo – in sette mesi non siete stati buoni di prender quattro mura poggiate su un gabbro?
       E’ questa la potenza delle nostre schiere?
       O forse il nobile Signor Capitano di guerra ha paura di andare all’assalto?
       Bada come parli – gli intimò il comandante – Messer Guido di Ricci è il più nobile e il più coraggioso Capitano che la Repubblica abbia mai avuto; lui vien da quel di Reggio e ha traversato li Appennini per comandare le nostre schiere. O per aver dalla Repubblica – replicò ancora Lippo – più lire di quante ne prendano i Nove messi insieme?
       Basta, taci o ti faccio arrestare; le vostre carte m’impongono di lasciarvi passare e io ho rispetto dei Signori Nove e di maestro Simone, ma sta’ attento a far bene il tuo lavoro e a non impicciarti delle nostre cose o sarà peggio per te; ognuno faccia l’opra sua e poi si vedrà se la ragione è nell’assalto o nell’assedio. Che castello è quel di destra – chiese Donato per calmare l’aria – che porta la Balzana di Siena?
       E’ già caduto in mano nostra?
       No – sorrise il comandante – quella è la nostra bastia; non sai che messer Lando di Pietro, l’architettore, mandato dal Consiglio della Campana per li affari d’urgenza, costruì quel battifolle in meno di 40 giorni, per la sicurezza di noialtri senesi durante l’assedio?
       A cose fatte i Signori Nove decideranno se rovinarlo o, invece, guastare il cassero di Montemassi e rafforzare la bastia. La vedi quella macchina?
       Quale macchina – chiese Donato. Quella che sta dentro al nostro battifolle e ne supera gli spalti. E’ il trabucco, la macchina da guerra più distruttiva che sia mai stata inventata; ha un contrappeso mobile di ventimila libbre e per azionarla ci vogliono 50 serventi; ogni dieci minuti può lanciare una pietra di 300 libbre a più di cento metri; se il nostro Signor Capitano, che il Magistrato di Balia di guerra ha spedito insieme a noi in questa regione malsana a metter pace e a far sicure le strade sino a Talamone, avesse voluto, avremmo già rovinato quelle mura da sei mesi; ma la Repubblica non vuol distruggere il cassero, lo vuol prendere intero; ogni tanto gli lanciamo dentro qualche carogna d’animale o lo sterco dei nostri cavalli: noi ci divertiamo e quei porci di ghibellini s’appestano; mettilo nei tuoi disegni, il trabucco e di’ a maestro Simone di non lasciarlo fuori dal suo fresco; il trabucco ci farà vincer quest’assedio e con l’aiuto della Vergine, ma di più con le lire della Biccherna, ce la faremo a riportar vittoria e a riaprire la via del mare ai mercanti, che la carestia di quest’anno è troppo dura per farla continuare. E a che serve quel lungo steccato – chiese Donato – con armi e armigeri, che circonda tanto il cassero che la nostra bastia e il nostro campo?
       Messer Guidoriccio l’ha voluto – spiegò il comandante con l’aria di chi si vanta di essere a parte di così tante informazioni – così che quegli impudenti non riescano a scappare né ricevan aiuti da nessuno, né dal Bavaro né da Castruccio; quello, l’Antelminelli, è un demonio; l’ho visto nella lotta, tre anni fa, ad Altopascio; giuro che se non fosse un dannato imperiale vorrei averlo dalla nostra parte; un gran guerriero e un gran signore; se tra 192 anni un dotto di cose militari e politiche scriverà la Vita di Castruccio Castracani da Lucca, io dico che non dovrà tralasciare che ei non fu inferiore né a Filippo di Macedonia padre di Alessandro, né a Scipione di Roma e sanza dubbio arebbe superato l’uno e l’altro se, in cambio di Lucca, egli avessi avuto per sua patria Macedonia o Roma; ma ora il nostro Capitano ci porterà alla vittoria: c’è andata bene che Castruccio abbia avuto da fare a prender Montecatini e dicono si sia buscato le febbri e gli sia rimasto poco da campare.

       Donato e Lippo superarono lo steccato scortati da un fante della ronda. E tu come ti chiami – gli chiese Lippo. Io sono Jacopo di Giovanni Iazzi e vengo da Castel d’Arbia – rispose quello. Dimmi Jacopo, da quanto tempo non vai a casa?
       Da 107 giorni – si lamentò il fante – e ho ancora quaranta giorni davanti, prima d’avere un’altra licenza; ma spero che presto si levi il campo; si dice che oramai quelli là dentro non abbian più niente da mangiare e i morti li sotterrino dentro le mura; sarà question di poco; il nostro Signor Capitano ha fatto bene i suoi conti e non ha nemmeno rischiato tanto; quando il Bavaro e l’Antelminelli son passati qui vicino per andare a Roma, c’ha lasciati tutti dentro il battifolle, pur di non interrompere l’assedio e lui e i nobili si son rifugiati a Roccastrada e a Montepescali. Che tipo è questo messer Guidoriccio di messer Niccolò dei Fogliani – gli domandò Lippo. Io l’ho visto solo da lontano – disse Jacopo – ben rotondo e pasciuto; la sua guardia non fa avvicinare nessuno, tranne i comandanti delle compagnie. Noi dovremmo vederlo però – si rivolse Lippo a Donato – per fare uno schizzo. Non ha importanza – disse Donato –; Simone ha già tutto in testa per la depentura del Capitano e del suo destriero bianco; noi dobbiam preoccuparci solo del campo. Un’ultima cosa, Jacopo – chiese Lippo – c’è dell’acqua qui vicino?
       Sì, mezz’ora a piedi, là, tra la bastia e il castello, in quella gola, c’è la sorgente del Pisciolino; ma state attenti alle nostre ronde, quelli non scherzano e vi accoppan come nulla; non voglion ficcanaso intorno e dopo sette mesi d’assedio vi passano a fil di spada senza fiatare. E tenete d’occhio quella bertesca che dalla torre del castello guarda il nostro campo: non si muove foglia che loro cominciano a lanciar pietre, quadrelli e a precipitar sabbia rovente dalle caditoie.

       Donato e Lippo presero tutte le misure, disegnarono i bozzetti, tracciarono gli angoli e le prospettive delle tende, del cassero, del battifolle, squadrarono e traguardarono. Lo fecero così bene che Simone fu preso dalla voglia di andar di persona a vedere il campo, prima di cominciar la depentura. Appena in tempo: neanche un mese e il castello si arrese e il battifolle fu disfatto. Simone aveva due anni di tempo per dipingere Guido; ma alla fine fece un buon fresco nel Palazzo pubblico, come i Nove gli avevan chiesto, perchè Montemassi e Sassoforte li fero dipegnere i Signori Nove di Siena, a l’esenplo come erano, i quali furono dipenti nel palazo grande di sopra nella sala, e fu Maestro Simone di Lorenzo da Siena ottimo maestro, fu d’aprile 1330.

       Finì che si erano addormentati sotto il porticato di Roccatederighi, sopra la piana e i campi appiattiti dal sole e dirimpetto ai colli boscosi e azzurri, con alle spalle i monti e la storia. Si erano addormentati seduti e con le sigarette accese. L’uomo del bar venne a svegliarli e a portar via i bicchieri vuoti. Quando si misero in piedi era ancora caldo e spirava un po’ di grecale. Veniva da Montemassi.


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