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"AROMA AMARO "
Paola Presciuttini


Nella stanza in fondo al corridoio un uomo morto.
I pavimenti di marmo scuro luccicanti. Ovunque odore di caffè.
Sono io che faccio il caffè. Io sono la migliore amica della figlia. Nessuno sa da dove sono sbucata, nessuno mi conosce. Sanno solo che faccio il caffè. Il campanello suona di continuo. Deng, deng, deng. E’ uno strano campanello. Di solito fanno drin drin. A volte dindon. Questo fa deng, deng.
Stamattina la casa era piena di parenti, ho dato il cencio dappertutto. Tra poco torneranno.
Me li immagino giù, davanti al portone. Hanno spento la radio nelle macchine. Hanno spento il sorriso sulla faccia, e col capo basso si preparano a questo dovere familiare. Quando varcano la porta hanno tutti la stessa espressione contrita.
Entra una donna biondissima ha capelli gonfi sulla testa come nuvola. I seni stretti in un reggipetto a balconcino, sembrano due pagliai.
Si presenta, sorridendo. Lo saprà che questa è una veglia funebre? Ha un nome da automobile. Credo proprio che abbia detto di chiamarsi Giulietta. Così almeno mi è sembrato di capire. Le voci mi arrivano falsate dal rumore della macchinetta del caffè che bolle.
Si siede, e inizia a guardare fuori dalla finestra.
“Vuole un caffè?” chiedo.
“Sì grazie, un goccio”
Passo la macchinetta bollente sotto l’acqua, l’ultimo caffè l’ho fatto dieci minuti fa per Silvia e sua madre che non hanno voluto mangiare, poi la svito con uno straccio, quindi ci metto l’acqua. La voce di mia madre mi raggiunge “l’acqua deve arrivare fino a questo rigo, se ce ne metti un po’ di più è meglio” riempio il passino di ferro di polvere profumata, chiudo tutto ermeticamente e la metto sul fuoco..
Con Silvia c’eravamo viste ieri. Aveva dormito a casa mia. Poi alle undici se n’è andata.
“Ciao ci vediamo dopo.” Come sempre.
A mezzogiorno squilla il telefono. Dapprima non riconoscevo nemmeno la voce. Un gorgoglio.
“E’ morto, è morto.”
“Chi?”. Ho chiesto io.
“Mio padre”.
“Arrivo!”
Mi sono cambiata, mi sono lavata la faccia. Ho stretto gli aghetti delle scarpe pensando a quell’uomo burbero che avevo visto la settimana prima a cena. Ho chiamato Luisa. Non e me la sentivo di andare da sola. Davanti alla morte le famiglie si stringono a morsa e mi è venuta come la paura di rimanerci stritolata. Ho guidato con le lacrime che cadevano lente sulle guance. Che strano piangere per qualcuno che si conosce così poco. Piangevo per un dolore che apparteneva in realtà a qualcun altro. Ma ho condiviso talmente tante di quelle emozioni con Silvia che quelle lacrime sono cadute, per automatismo, per simpatia. Davanti agli occhi i fari di una Panda lenta come un bradipo, ai lati i catarifrangenti arancioni. Da piccola li contavo. Iniziavo a contarli all’imbocco dell’autostrada, quando partivamo in macchina, con mio padre, per andare in campagna. Due ore, centosessanta chilometri, senza mai distrarmi. Mio padre mi guidava vicino, dalla radio veniva la voce di un soprano. E contavo, contavo. Non ce l’ho mai fatta a contarli tutti. Ad un certo punto mi distraevo: l’autogrill, il sonno, mio padre che mi chiedeva di riconoscere il nome dell’opera lirica dalla quale era tratta la romanza.
Le lacrime si sono trasformate in singhiozzi. Ho dovuto fermarmi. I fari della Panda davanti a me erano diventate lunghe scie rosse. Che ci fa poi uno con i fari accesi a mezzogiorno? Ma si sa gli ometti col cappello sono un dramma internazionale quando guidano la macchina. Anche il padre di Silvia era uno di loro. Uno di quelli con la macchina lucida, di quelli per i quali la quarta marcia è un miraggio, qualcosa di irraggiungibile, una cosa che i costruttori hanno pensato per gli uomini del futuro. Guidano con tutte e due la mani sul volante, il piede sempre un po’ appoggiato alla frizione, che devono sostituire ogni due anni, la frenata facile e l’acceleratore anchilosato. Non si sa perché portino il cappello. Ma se poi, come è successo a me, capita di vederli a casa, si capisce che quel cappelletto a coppola marroncino con gli scacchi non lo portano solo in macchina, ma se lo mettono la mattina a colazione e se lo tolgono solo la sera prima di dormire, quando se lo tolgono. Perché lo fanno? Me lo sono chiesta spesso. L’unica riposta che ho trovato è che questi ometti, di solito un po’ musoni e silenziosi ci si nascondono sotto quel cappello, come un bambino sotto un tavolo. E’ per questo che quando gli suoni con il clacson non cambiano espressione, in realtà non sanno di esserci.
Nella stanza in fondo al corridoio un uomo morto, col cappello.
Io faccio il caffè. E’ arrivata la sorella. Ha i capelli corti, brizzolati. Somiglia al morto come una goccia d’acqua. Ha anche la stessa voce. Identica. Tanto che appena apre bocca faccio un sussulto e mi cade un po’ di caffè sulla tovaglia di plastica a fiori azzurri. Pulisco.
“Vuole del caffè!” chiedo terrorizzata. Mi piacerebbe che mi rispondesse solo con la testa, annuendo. Invece se ne esce con un bel ‘si’ sonoro. E io mi sento accapponare la pelle.
“Sei già stata di la!” chiede alla signora bionda che se ne sta immobile con la tazzina in mano a guardare il cielo grigio fuori dalla finestra.
“No aspettavo che uscisse lei.” Lei, è la mamma di Silvia. Se aspettano che esca da quella stanza fanno notte. Non si è mossa da li. Non lo ha lasciato una attimo.
Verso il caffè in una tazza per Silvia. Ci metto un cucchiaino di zucchero, e glielo porto. Silvia è nella sua camera buttata sul letto. Con lei ci sono Marzio e Luisa. Chissà forse lo vogliono anche loro il caffè. Speriamo di no.
Passo davanti alla porta aperta. Lei è sempre lì, gli tiene le mani e piange sommessa. Rimango un attimo a guardare quell’intimità. Gli toglie il cappello, gli bacia la fronte e glielo rimette. Poi appoggia le labbra sulle sue sfiorandole: non ho mai visto due persone così anziane baciarsi. Non ho mai visto nessuno baciare un morto. Quindi gli bacia il petto, poi il pantaloni all’altezza della cerniera e fatto questo si siede di nuovo come chi abbia adempito ad un rito sacro e definitivo. Lo ha salutato tutto.
Marzio e Luisa hanno detto che lo vogliono il caffè.
Il campanello ha suonato un'altra volta. In cucina ora c’è anche un uomo in giacca e cravatta, deve essere il nipote. Chiaramente anche lui vorrà il caffè.
La sorella brizzolata viene travolta da una crisi di pianto improvvisa che sconvolge il silenzio della casa. Si scuote sulla sedia, a capo basso. Allunga la mano, prende uno straccio e senza pensare se lo mette sulla faccia per coprirsi. Un donnone di quella risma non deve essere abituata a farsi vedere in lacrime. Tiene lo straccio stretto nel pugno, lo prende con le due mani e lo tira, come volesse spezzarlo, come se in quelle fibre ci fosse la vita di suo fratello imprigionata. E io non so come svitare il tappo della macchinetta, visto che quello straccio è l’unico che ho trovato. Alla piangente non posso chiederlo. Tanto meno alla madre di Silvia. Però non posso nemmeno ustionarmi le mani, non sarebbe giusto.
In cucina entra Silvia. Non saluta nessuno. Anche il dolore ha una gerarchia.
Sentendo un sorta di soggezione le chiedo dove posso trovare uno straccio.
Me lo da e si siede. Marzio le porge la seggiola.. Marzio è un nostro caro amico. E’ distrutto. Ieri era qui, quando è successo il fatto. Ha visto il viso di un uomo nel momento in cui il cuore si spezza e ancora non si è ripreso. Luisa deve essere rimasta in camera come chi sa di non avere nessun ruolo, dopotutto è solo un amica dell’amica della figlia del protagonista. E poi le sedie sono tutte occupate. Mi friggono i piedi è da stamani che non riesco a trovare un attimo per rilassarmi.
Dietro le mie spalle parlano a bassa voce. Apro il barattolo e lascio che l’odore di caffè mi invada. Da qualche parte nella mia memoria si apre una porticina. Fa capolino un immagine. Un bicchiere di vetro bianco con un goccio di caffè sul fondo, il mio dito minuscolo che ci entra dentro. Si muove in tondo cercando di raccogliere più zucchero possibile. Poi esce e si dirige deciso verso la mia bocca aperta. Lo succhio.
“Bono babbo i’ feffi”
“Bono eh…”
Impastata con quell’immagine mi raggiunge una musica, la voce di Violetta che si rassegna, per decoro, a perdere l’uomo che ama, la lascio risuonare nella mia testa attenta a non canticchiarla.
Si respira un aria strana oggi pomeriggio in questa cucina. Stamattina parlavano del morto, di quanto era buono, della sorpresa di una fine così improvvisa, del dolore dei familiari, insomma tutto normale. Ora invece stanno zitti, ammutoliti, nessuno guarda in faccia nessuno. Servo il caffè a tutti, sperando che qualcuno si decida ad andare di là liberando una sedia. Ma sembrano paralizzati.
Prendo coraggio e vado a chiedere alla vedova se, caso mai, gradisce un po’ di caffè. Se dice di no è la volta che mi siedo sul divano in salotto e me lo bevo io. Avrò preparato dieci macchinette senza riuscire nemmeno a bagnarmi la bocca.
Entro nella stanza. E’la prima volta che lo faccio da quando sono qui.
Le strisce di luce che filtrano dalla persiana disegnano delle righe orizzontali sul corpo del morto e su quello della moglie. Lui è vestito di tutto punto, giacca abbottonata, pantaloni con la riga, scarpe lucide e cappello. Dalla strada i rombi delle macchine che ripartono al semaforo arrivano amplificati, facendo vibrare i vetri della finestra.
Anche lei un goccio di caffè lo prenderebbe volentieri. Così ha detto. Ha detto anche che non devo portarglielo, verrà a prenderlo in cucina.
Infatti poco dopo appare sulla porta. I capelli bianchi che il liquido della permanente ha reso violetti luccicano intorno alla sua faccia gonfiata dalle lacrime.
Il nipote si alza immediatamente. Guardo la sedia vuota con occhi concupiscenti. Ma è questione di un attimo. La donna stramazza a sedere scotendo la testa. Le porgo il caffè. Per berlo è costretta ad alzare lo sguardo. I suoi occhi si puntano sulla capigliatura gonfia della donna bionda che ancora non si è mossa dalla finestra. Rimangono li, come impigliati.
Silvia le appoggia una mano sulla gamba.
“Su mamma non fare così!”
La bionda si volta, avrà suppergiù l’età della madre di Silvia ma qualcosa nel suo modo di fare lascia intuire una sorta di vivacità infantile. Senza guardare in faccia nessuno si avvia verso l’atrio. La seguo con lo sguardo. Si ferma un attimo davanti allo specchio sistemandosi i capelli come se dovesse prepararsi a un appuntamento. Con le mani percorre il contorno del busto lisciandosi addosso la giacca del tailleur azzurro e, ticchettando con i tacchi sul pavimento di marmo luccicante, svolta sparendo nel corridoio.
La sorella con quella voce che mi da i brividi solo a sentirla, esclama:
“Che faccia tosta.”
Il nipote si alza e avvicinandosi a me mi sussurra nell’orecchio.
“Credo che sia il momento di fare un altro caffè”
La vedova non si muove, tiene stretta la mano di Silvia nella sua, la bocca chiusa come una cerniera.
E’ ancora quella voce così insopportabile a rompere il silenzio.
“Ma guarda che bisogna vedere. Nemmeno davanti alla morte. Ma tu, tu cara mia” dice agitando la mano, nella quale tiene ancora ben stretto lo straccio, verso la cognata” tu dovresti importi. Non lo hai mai fatto in tutti questi anni ma ora, non hai più scuse. Deve ringraziare che io sono solo la sorella perché se fosse per me, l’avrei già buttata fuori di casa quella…” e qui si interrompe portandosi lo straccio alla bocca. Io passo la macchinetta sotto l’acqua per ghiacciare il ferro e poterla svitare.
Metto l’acqua, la polvere, accendo il fuoco e lascio che la luce violetta della fiamma mi ipnotizzi. Dopotutto non sono fatti miei.
“Siediti!” La vedova si è alzata dalla sedia. E me la indica col dito.
“E voi per favore potreste tornare tra un po’”. La sorella molla lo straccio e dopo aver dato uno sguardo al figlio come a dirgli ‘andiamo che qui non ci vogliono’, escono senza fiatare. Silvia mette la tazzina nel lavandino e torna in camera sua seguita e da Marzio, che, uscendo, mi tocca con la mano una spalla.
Siamo rimaste solo io e la vedova nella cucina. Lei si avvicina all’interruttore e accende la luce. La macchinetta ha iniziato a bollire, faccio per alzarmi.
“No lascia stare, ci penso io. Sai se Giulietta ha già preso il caffè.”
“Credo di si.” Rispondo con un filo di voce. Lei invece ha un aria energica. Non sembra nemmeno la stessa donna che pochi minuti fa che se ne stava seduta affranta sulla sedia. Non capisco cosa succede, so soltanto che mi fa piacere stare un po’ seduta, finalmente. E mi fa piacere anche rivedere nella madre di Silvia la forza e la concretezza di sempre.
“Lo sai chi è quella signora che c’è di la?” mi chiede lei con voce stentorea.
Improvviso una risposta.“Una parente?”
“No, è Giulietta Scocci, segretaria nonché amante di mio marito dal 1963 al 1979.”
Non so cosa dire.
“Nell’aprile del 1979 appunto, mio padre, la licenziò, mettendo fine allo scandalo pubblico che stava coprendo di ridicolo tutta la nostra famiglia. Mio marito lo stesso anno diventò titolare dell’azienda, si mise quel cappello in testa e non ne parlò più. Quanto zucchero ci vuoi nel caffè?”
Oltre la porta vedo passare un ombra azzurra che, senza neanche voltarsi verso la cucina, si dirige alla porta d’ingresso, la apre ed esce.
“Puoi farmi un favore.” Mi dice la vedova, che nel frattempo ha aperto il rubinetto e sta lavando le tazze dell’ultimo caffè.
“Mi dica”.
“Vai a sentire cosa vogliono Silvia e i ragazzi per cena.”
Prima di aprire la porta della camera di Silvia allungo lo sguardo verso la stanza del morto. Sul letto lo stesso corpo, immobile, nella medesima posizione.
Giacca abbottonata, pantaloni con la riga, scarpe lucide ma niente cappello.


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