-”Nini, piglia la bicicletta si fa du’ pedalate!”
Questo era Settimio.
Settimio ad ottanta anni aveva perso molto: un fratello,
la moglie, qualche ricordo, un po’ di udito, ma
sicuramente aveva ancora intero un amore incrollabile
e antico per la bicicletta.
Il nuovo amore era invece il suo “Nini”,
suo nipote Paolino che adesso aveva sette anni e le
ginocchia sempre sbucciate e piene di croste spesse
come gusci d’ostrica.
Sette anni prima, ad ottobre, proprio il giorno in cui
si rimetteva l’ora legale, mentre spostava la
lancetta dell’orologio dalle 11 alle 10, era arrivata
la telefonata dall’ospedale.
-“ Babbo, è maschio e pesa tre chili e
due – urlava euforico suo figlio Marco, senza
però sentire risposta dall’altro capo.
Dopo un silenzio allarmante, preoccupato Marco aveva
chiamato:”Babbo, Babbo!!”
E solo allora una voce ancora in ritardo aveva detto
strozzata:”Sì, arrivo”e poi si era
sentito di nuovo silenzio e una soffiata di naso forte
da grande occasione.
Settimio aveva agganciato la cornetta e si era messo
a sedere in cucina a frignare lacrimone grosse e a mangiare
un pezzo di cioccolata dell’uovo con una fetta
di pane, come faceva sempre quando era contento.
Era diventato nonno.
Aveva inforcato la bicicletta, senza nemmeno mettersi
una giacca o un paltò, come usava chiamare lui
il cappotto, e aveva pedalato con la sensazione di avere
le ruote così gonfie, da sentirsi sollevato da
terra.
E un po’era come se avesse davvero volato perché,
se si fosse fermato a pensarci, non sarebbe riuscito
a ricordare quale strada avesse fatto per raggiungere
l’ospedale.
Poi ricordava solo di essere entrato in una camera che
già odorava di latte e di aver visto Ilaria,
sua nuora, con le guance rosse e spettinata, a letto
con le braccia nella stessa posizione delle madonne
ritratte nelle chiese, quelle poche volte che c’era
entrato.
Si era avvicinato al letto e Ilaria aveva aperto un
po’ l’abbraccio per lasciargli vedere cosa
nascondesse. Ne usciva una manina.
Settimio si era accucciato a sfiorare quella manina
che si apriva e chiudeva piano piano come le zampe dei
gatti quando fanno le fusa.
Mentre si chiudeva c’era rimasto il suo dito indice
dentro e Settimio si era sentito salire un
calorino nuovo che si era fermato sul petto a sinistra.
Allora era riuscito a biascicare: “Ti prenderei
in collo, Nini, ma sono un omo, un lo so fa..!”
diventando rosso per l’emozione e facendo ridere
sua nuora e suo figlio Marco, che aveva il compito oneroso
di sistemarle i cuscini dietro la schiena.
Questo fu il primo momento in cui si videro e si toccarono.
E fu subito amore.
Un amore fatto di sguardi, di biberon scaldati, di regali,
tanti regali.
Prima gli portò le papere per fare il bagnetto
e lo fece sguazzare nell’acqua , parlandogli con
una voce da cucciolo che non aveva saputo tirar fuori
neanche con suo figlio Marco.
Con i mesi dalle papere passò alle palle mentre
le manine crescevano e potevano stringergli le dita
con più forza.
E poi, senza nemmeno accorgersene, Paolino aveva imparato
a camminare, e poi dopo un tempo che a Settimio era
parso un batter d’ali, a correre, a parlare e
a scrivere.
Quel batter d’ali erano sette anni.
Le ali per Paolino furono le ruote della bicicletta
comprata per il settimo compleanno dal nonno. Settimio
l’aveva voluta rossa.
-“Almeno i’ nini s’abitua a vole’
bene a questo colore” – aveva detto complice
al proprietario del negozio, segretario di rifondazione
comunista del paese.
E così ogni domenica in cui ci fosse un briciolo
di sole, dopo aver trangugiato insieme latte e biscotti,
Settimio e Paolino partivano con le borracce piene d’acqua
seri e convinti per far ritorno spesso dopo pranzo.
Paolino che pedalava davanti fiero e Settimio dietro
sulla sua bicicletta più vecchia che ogni tanto
raddrizzava il nipote:” Paolino non stare nì
mezzo di strada, stai più da parte!” E
Paolino si spostava sul ciglio della strada, dove il
nonno rimaneva invece dritto con le macchine che sorpassavano
e che a volte facevano venire i brividi da quanto passavano
vicine.
Ma quando le macchine si diradavano fino a scomparire
e la strada si stringeva per diventare campagna, allora
era il momento che tutti e due aspettavano.
Rallentavano la pedalata e cominciava la gita, uno accanto
all’altro.
-“Lo vedi quel casolare diroccato laggiù,
Paolino? I’tu nonno è stato lì due
mesi nascosto pe
scappà a’Tedeschi, quei delinguenti! Quei
contadini d’allora m’avevano rimpiattato
in una botola a ibbuio e la notte venivano pe’
dammi da mangiare, un po’ di pane e formaggio,
..quello che c’era.
E una volta vennero davvero i Tedeschi e sentivo le
travi di legno tremare sulla testa da come camminavano
da dittatori con quegli stivaloni. Io trattenevo i’fiato,
Paolino, avevo venticinque anni e paura di morire, anche
se ero partigiano, no come ora che bene o male la mì
vita l’ho vissuta…”
-“Oh nonno!- sbuffava Paolino – non dì
queste cose…
- …E dico sul serio, te tu sei piccino e un tu
ci pensi- si interruppe e cambiò voce- se mi
avessero trovato avrebbero ammazzato me e quei contadini
che erano stati buoni. Ma non trovando nessuno, gli
portarono via tutte le bestie, buoi, maiali, tacchini
e allora vennero tempi bui per tutti, ma comunque quella
sera si festeggiò perché s’era tutti
vivi, anche se con pane e cipolla…”
- “Certo nonno che ti doveva puzzare i’fiato…-
scherzava Paolino.
E allora Settimio rideva contento che Paolino non avesse
mai conosciuto la fame, la paura e la guerra e lo faceva
fermare a dissetarsi con le more dei rovi. Poi gli arrovesciava
sulle mani violacee l’acqua della borraccia e
gli passava, come fosse stato un rito, il fazzoletto,
per asciugarsi.
Si riprendeva tra stradine ricamate tra quadrati gialli
di fiori di rape e tra macchie verdi di grano giovane.
Settimio rallentava e si metteva zitto con gli occhi
socchiusi come se volesse tenere a mente quel paesaggio,
sigillare in sè gli odori degli alberi fioriti
o delle siepi di rosmarino.
Si limitava allora a chiamare gli alberi con il proprio
nome.
-“Guarda Paolino, quella è una quercia”
oppure “quello è un ramo di ciliegio”.
E Paolino rallentava, osservava e poi ripartiva in silenzio,
ma anche lui annotava tutto nella mente, nomi, foglie,
tronchi per saperli riconoscere alla prossima gita.
Tra tutti quegli ulivi e terre trattenute da muretti
a secco, dove testardi i giaggioli nascono, più
su, dopo curve strette e salite ripide, una botteghina.
La loro botteghina.
“L’appalto”, veniva chiamata e da
lì usciva sempre odore di pane caldo e di carta
da salumi, quella marrone, che nei negozi giù
in paese non si vedeva più.
Due fette di pane col prosciutto, un bicchiere di vino
rosso e una coca cola mangiati ad un tavolo, su una
panca dura sotto un pergolato da cui si vedeva giù
tutta la valle.
E l’ultimo giorno in cui Paolino andò lassù
con il nonno, ci lasciò un dentino tra quella
mollica bianca e umida e la corteccia croccante.
E, affamato, dovette risputare sulla mano tutto quell’aggrovigliolìo
di pane triturato e prosciutto sbocconcellato per poterlo
ritrovare. Sembrava un chicco di riso.
Il nonno incartò il dentino nel fazzoletto e
se lo mise in tasca, poi gli fece bere un sorso di vino
rosso:” leva la paura e disinfetta” –
gli disse.
Per tutto il ritorno Paolino strusciò la lingua
su quel vuoto improvviso tra due denti e sulla gengiva
molliccia e ancora fresca di sangue.
Ma quella sera il topino non passò a mettere
i soldi sotto al bicchiere per il dentino rubato, e
la mattina seguente la casa era invasa di gente, parenti
che baciavano suo babbo, vestiti di nero e tristi.
E anche suo babbo aveva gli occhi rossi come quando
non dormiva bene.
Sua mamma lo aveva vestito e gli aveva detto con parole
infantili che il nonno era volato con gli angeli in
cielo.
Paolino uscì con i cuginetti, ma prese la bici
e pedalò solo. Sapeva che si sarebbe dovuto abituare.
Arrivò fino al casolare abbandonato e, dopo essere
entrato, si sedette su quello che era stato un pavimento
e pianse il suo primo vero dolore.
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