Era lassù appollaiato in una mattina di maggio, come ogni giorno.
Come ogni giorno il sole, forse guidato anche lui da un preciso meccanismo, era riapparso da dietro i
tetti, dopo esservi scivolato la sera prima.
La piazza invece si era trasformata parecchie volte da quando Membrino era stato messo lì, a battere
col martello le ore dell’orologio più alto del paese.
Per questo era nato, per accompagnare e scandire il tempo che passava.
Aveva visto avvicendarsi giù nella piazza carrozze, cavalli, biciclette, ed ora quelle scatole
rombanti e lucide, quasi con la stessa rapida alternanza con cui aveva visto mettere e togliere dal pennone
del palazzo comunale bandiere diverse.
Se ne stava lì divertito a guardare le case e i tetti su cui erano spuntati strani alberi grigi
che non facevano fiori, non davano frutti e che quindi, quasi certamente, erano stati piazzati per bellezza.
Osservava la vita che si svolgeva nella piazza: riconosceva gli incontri al bar, gli amori che nascevano
e che finivano, il via vai dei giorni normali e quello più animato del sabato, l’appuntamento
della grande festa. In quell’occasione lo spazio si riempiva di persone formicolanti intorno alle
cose che, quand’erano nuove avevano voluto ad ogni costo, e che ora vecchie rivolevano ad ogni costo.
Strani esser gli uomini!
Tutto sommato Membrino era soddisfatto della sua vita, avrebbe solo gradito un po’ più d’attenzione,
che le persone ogni tanto si ricordassero di lui, che voltassero lo sguardo in su, ma dietro il suo aspetto
da ragazzino ne aveva di esperienza e capiva che avevano certo da fare tante cose interessanti e a volte
un po’ misteriose.
Ricordava però compiaciuto quella mattina che un’intera classe di bambini si era fermata
a lato della Chiesa di S.Lorenzo e se n’era stata lì col naso all’aria mentre la maestra,
una signorina davvero simpatica, lo indicava col dito puntato, parlava e spiegava come se lui fosse un
personaggio davvero notevole. Avrebbe fatto un balzo giù e li avrebbe abbracciati tutti quei bambini,
ad uno ad uno, compresa la maestra. E quando se n’erano andati via giù per Costa, aveva sentito
il suo martello picchiare più forte per l’emozione, o almeno così gli era sembrato.
Aveva comunque i suoi appuntamenti fissi, certi frequentatori abituali della piazza, come il giovane solitario
che sedeva al bar e la bambina che si fermava davanti al cartello pubblicitario dei gelati. Era piccolina
e non ci arrivava nemmeno, così doveva alzare il mento e socchiudere gli occhi per guardare, ma
se ne stava lì piantata per diversi minuti quasi assaggiasse quel ben di Dio gustandolo e riflettendo
bene prima di scegliere quale sarebbe valso un acquisto.
Infine c’era quello che Membrino chiamava fra sé “il mio amico”: un uomo secco
secco, un po’ curvo, con un cappello di feltro che si toglieva solo, quando, seduto sulla panchina
dirimpetto alla chiesa, si passava più volte le mani sulla testa quasi ad ammonire i pochi capelli
bianchi, accompagnandoli per sicurezza al loro posto. Subito dopo si toglieva di tasca un biscotto e lo
dava ad un cagnolino bianco e nero, il suo compagno, l’unico con cui Membrino l’aveva visto
parlare nel corso degli anni. Salutava molti dei passanti con un sorriso o con un’alzata del bastone
a cui si appoggiava, la ma i discorsi lunghi li faceva col suo cane che gli si accucciava davanti addormentato,
eppure pronto a scattare appena un segno, che lui solo sapeva interpretare, lo esortava ad andare.
Dunque Membrino era lassù, appollaiato, in una mattina di maggio, come ogni giorno.
Il viavai della piazza era quello consueto, la bambina dei gelati se n’era appena andata saltellando,
l’uomo col cane sedeva sulla solita panchina, il biscotto aveva già raggiunto la sua meta
con evidente soddisfazione del cane che, sdraiato, gli facilitava il resto del viaggio. L’uomo si
guardava intorno lentamente, senza fretta, come chi non è più in guerra contro il tempo
e può permettersi un po’ di indulgenza verso il vincitore. Il cane ebbe un guizzo improvviso,
drizzò le orecchie, forse aveva visto un gatto e scattò verso il palazzo del Comune, Membrino
lo vide e vide con la stessa occhiata la macchina che da via S.Ippolito veniva giù per la discesa
ad una velocità tale da non lasciare scampo al cane. Che fare? Non c’era tempo! – devo
sbrigarmi! – pensò – forse potrei…….Chissà?….
Si buttò in avanti con forza, nel cadere indirizzò il martello sulla lancetta più
lunga dell’orologio dandole uno scossone che la fece tornare indietro di un pezzetto. Sperò
con forza che funzionasse mentre si sentiva catapultare all’indietro al suo posto nell’identica
posizione di prima.
Sotto di lui sulla piazza, una macchina veniva giù per la discesa, la donna al volante aveva visto
baluginare qualcosa, ma la strada era libera.
Un uomo era seduto sulla panchina, il cane in piedi accanto a lui. L’uomo aveva avuto un capogiro
e, mentre accarezzava il cane, gli disse: - Deve essere la circolazione.
Alzò la testa e gli sembrò di vedere Membrino che lo salutava sventolando il braccio. –Allora
caro mio dev’essere grave, sarà bene che ne parli col dottore.
Si alzò e, affiancato dal cane, si allontanò.
Membrino ancora un po’ affannato, gli andò dietro con gli occhi.
E lassù appollaiato, in quella bella mattinata di maggio si sentì leggero come se il minimo
soffio di vento potesse farlo volare via.
GRAZIELLA BISCONTRI, secondo premio ex aequo prima edizione Premio letterario “Castelfiorentino”,
anno 1999
|