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"ELSA UN FIUME PER POCHI"
Gilberto Menghini

Le estati passano veloci come zanzare o come farfalle: fastidiose oppure incantevoli…

Quella dell’86 ci volò incontro lasciandoci sorpresi come bruchi ospiti di un grande orto.
Fu l’anno i cui ci sentimmo in dovere di dimostrare il nostro attaccamento per l’Elsa, ripetendo ciò che i nonni avevano fatto alla nostra età.
E’ strano come per gli anziani i valori della vita siano andati sempre degradandosi, ed è ancora più buffo come questi si crogiolino nel sapere che è così. Il vanto, forse l’unico, di una generazione forte che ha superato tempi molto duri, è incentrato sul contratto con la natura e sull’amicizia vera. Io e David eravamo veri amici e per merito e per colpa dei nostri nonni il gioco per noi aveva sempre un sapore medievale. Bisogna però che queste idee vadano ambientate nella piccola comunità della Valdelsa che, seminata lungo il fiume, negli ultimi cinquanta anni aveva trascurato il corso d’acqua a favore del progresso. Rispetto ai nostri “antenati” non sapevamo molto sull’Elsa. Le volte in cui aveva sfamato, le altre in cui aveva spaventato, le sue insenature. Fatta eccezione per quel tratto da Certaldo a Ponte a Elsa, il resto era un mistero, e dire che ce ne perdevamo la parte più incontaminata. L’acqua era malata. Questo potrebbe bastare come scusante al fatto che gli unici contatti che eravamo riusciti a instaurarci erano puramente di tipo ittico. La pesca rappresentava per noi qualcosa di più di una sfida uomo - pesce, era la testimonianza della nostra presenza. Pescare comunque e dovunque, questa era l’unica regola.
Le nostre sveglie, puntate fisse alle cinque del mattino, si differenziavano da quelle degli amici, che solitamente a quell'ora si rigiravano nel sonno o al massimo si alzavano a dare un po' di sollievo alla vescica. Obbiettivo primario la steccaia di Granaiolo. Le bici sembravano già calde e l'attrezzatura era pronta dalla sera precedente. Le due ruote in effetti erano il principale mezzo di trasporto che ci assecondava in tutto e di cui potevamo usufruire a dieci anni. All’alba diventava anche l’unico, perché provarsi a svegliare uno dei nostri genitori per farci accompagnare fin là sarebbe equivalso a rimandare la battuta di un paio d’ore. Il fresco della mattina non ci distraeva minimamente, e in circa quindici minuti percorrevamo la strada della Dogana che da Castelfiorentino ci portava direttamente alla diga. Quello che più ci affascinava era riuscire a catturare i pesci proprio nel loro ambiente naturale, preparando lenze con le nostre mani. Una curiosità continua ci teneva svegli, immobili e pazienti a fissare i sugheri in acqua. Tornando a casa ci sentivamo orgogliosi nel vedere che gli altri ragazzi che, appena alzati (intorno alle 11,30), si divertivano a guardarci passare addobbati come clown di ritorno da uno spettacolo malriuscito. Se dovessi dare un voto alla considerazione che avevamo per il vestirsi, sarebbe due fisso; c’era da capirli. Avete mai incontrato due soggetti conciati come bagnanti, sporchi come minatori e carichi come muli? Questi eravamo noi: due amici allergici allo sport, indifferenti alle ragazze e soprattutto innamorati di quello sconfinato e sempre nuovo parco fluviale.
Dicevo che l’Elsa non se la passava un gran che bene, per via dell’inquinamento causato dagli scarichi delle svariate ditte. Frequenti erano le morie di pesce, che preoccupavano sia i pescatori che gli abitanti della zona. Dove esattamente avesse inizio il problema non saprei dirlo, sicuro è che per questa ragione almeno un paio di generazioni non si sono potute godere la loro parte di fiume.
Uno dei tanti divieti che vi circolavano si riferiva al fatto di non poterne mangiare i pesci. Se qualcuno di voi credesse che ce ne potesse importare qualcosa forse non ha capito bene quale era il nostro intento: riprendere quei contatti interrotti cinquanta anni fa. La cosa sembrava non interessare granché i nostri genitori, diffidenti verso quel corso d’acqua che aveva ancora tante cose da dire. Il meccanismo era semplice, l’importante era convincersi che si poteva fare. Una mattina aggiungemmo all’attrezzatura un recipiente di media grandezza. Questo era destinato ad ospitare alcune prede che alla fine si concretizzarono in due tinche e quattro bei cavedani.
Portare il paniere in bicicletta fu difficile, ma niente per due che di li a pochi anni avrebbero portato un calcio balilla su di un carretto da fieno da Varna a Castelfiorentino. Ma questa è un’altra storia. I pesci rimasero in vita, nel secchio per quattro giorni. Dopo di che, una volta spurgati, si disputarono la classifica di arrivo a tavola: primo risotto alle tinche, secondo grigliata di cavedani. Ad ogni modo accontentarsi non era da noi, e quello che desideravamo più di tutto era il contatto fisico, naturalmente non inteso come scivoloni in acqua.
Arriviamo dunque al pomeriggio più importante, quello che in effetti mi ha dato l’input per raccontare questa breve avventura.
C’è da dire che non sempre eravamo corretti e difatti quella sera stavamo pescando in divieto alla steccaia della Dogana.Visto che non era neppure la prima volta., avevamo già ideato un piano di fuga. Le prime cose da fare erano individuare un’insenatura del fiume poco profonda, e munirsi di canne vecchie o di poco valore. La pesca sul posto era a recupero, e quel giorno prometteva meglio del solito. Verso le quattro del pomeriggio sentimmo dei passi dietro di noi. Eravamo pronti. La divisa del guardapesca ci dette il segnale. Lanciammo le attrezzature in acqua nel punto stabilito e guadammo la pescaia su un lato sicuro. Raggiunta l’altra sponda ce la filammo con le bici nascoste fra l’erba. L’azione si svolse molto velocemente e con una naturalezza che il “guardia” sprecò solo poche grida per tentare di fermarci. Di certo non avrebbe bagnato i suoi calzoni ben stirati per recuperare due mocciosi come noi. Quindi rimasto con un palmo di naso tornò sui suoi passi sorridendo. Passammo circa un’ora a gironzolare nei dintorni, ben attenti ad ogni rumore. Poi, mascalzoni, tornammo per recuperare le canne. Biciclette per terra e guado del fiume. Mentre attraversavamo ci dette nell’occhio un colore vivo fra le sterpaglie incastrate nella diga. Una pallina da tennis. Quale migliore passatempo visto che la pesca era compromessa. Con i pantaloni arricciati restammo in ammollo a lanciarci la palla. I tiri si ripetevano euforici, fin troppo visto che un lancio sbagliato andò a finire proprio nella corrente. Io, che ero più vicino, mi sporsi nel tentativo di recuperarla, David intanto mi incoraggiava dicendo di non aver paura che non c’erano punti profondi. Tranne quello. Vidi l’acqua balzarmi velocemente incontro agli occhi afferrai la palla e con un colpo di reni evitai di bere. David rideva. Adesso bagnato fradicio e spaventato sentii una presenza di fianco. Capii che anche lui si era tuffato dagli schizzi che mi arrivavano da ogni lato. Era stato semplice, così semplice che perfino il fiume se ne era meravigliato. Noi che facevamo il bagno in Elsa e per di più vestiti. Forse in quel momento ci si aprirono porte fino allora negate, o forse fu solo una magnifica serata dio divertimento. Ma mentre stavamo lì immersi fino al collo in quelle acque per certi versi vietate, sentivamo le risa e gli schiamazzi dei nostri nonni, che tornati bambini nuotavano vicino a noi. Quello è stato l’unico bagno in Elsa della nostra vita, essersi conquistati quel tratto è stato più di un tuffo nel passato, è stata la speranza di tornarci un giorno, magari con i nostri nipoti a sguazzare felici. Così finisce questa storia con pantaloni e canottiere distesi su una pietra e due ragazzi nudi a giocare sul fiume.

GILBERTO MENGHINI, secondo premio ex aequo, prima edizione premio “Castelfiorentino”,1999


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