E’ il 12 luglio 1944. Abbiamo vent’anni e da nove mesi la nostra residenza è
nei boschi della Valdelsa. Per maggior sicurezza ogni settimana ci trasferiamo da un bosco all’altro.
I tedeschi ci danno la caccia, sapendo che in questa zona si nascondono i partigiani o, come essi ci chiamano,
i banditi. Su di noi, qualora ci catturino, pende la pena di morte, però siamo ben decisi a vender
cara la pelle.
Siamo stanchi, sfiniti e spesso affamati anche perché da cinque giorni mangiamo solo frutta colta
qua e là tra i campi. Potremmo avvicinarci a qualche casa colonica per chiedere un po’ di
pane e , sicuramente, i generosi contadini valdelsani non ce lo negherebbero. La Valdelsa, ormai è
risaputo, è terra ospitale, generosa e vanta un tessuto di partecipazione democratica consolidato
nel tempo. Ma abbiamo il timore che in una di quelle case si annidi un delatore sfollato, pronto a denunciare
la nostra presenza nella zona.
Siamo anche sporchi nei vestiti e nel corpo. Ogni tanto troviamo un torrente e ci buttiamo dentro, ma
il sapone è merce introvabile. Il fronte è a una ventina di chilometri e la vehrmacht (fanteria
tedesca) è in piena ritirata.
Mentre gli altri sono a riposare nelle buche, formiamo un gruppetto di cinque “ribelli”: Alex
contadino, Gigio meccanico ed io insegnante, tutti e tre della Valdelsa. Gli altri due, essendo sfollati
da due giorni nella zona hanno chiesto di aggregarsi a noi. Pertanto, non li conosciamo né abbiamo
chiesto i loro nomi: non era prudente nel caso i tedeschi ci avessero catturato. Dopo una lunga conversazione,
ci è sembrato che avessero i nostri stessi ideali e li abbiamo accolti con fiducia. I nomi di avventura
li mettiamo noi, subito: il più altro e più estroverso si chiamerà Tom; l’altro,
meno loquace ed arruffato come un gallo da combattimento sarà Ruffo. Sembrano abbastanza istruiti
e coraggiosi. Il loro accento sembra lombardo: E intanto abbiamo fatto le sei del pomeriggio. Io mi alzo
e dico: “Ragazzi, non si può stare fermi: siamo come aerei in volo: se non ricevono la spinta
dei motori, cadono. Scendiamo a valle per vedere quanti tedeschi oggi si ritirano dal fronte. Ma attenti:
camminiamo sempre dentro le fosse se non vogliamo prendere una pallottola in testa"” Ci si
alza, infiliamo le scarpe pesanti senza i calzini e ci incamminiamo dentro una fossa che scende a valle.
Camminiamo quasi a gatto con le mani per terra, ma la posizione è infelice e ogni centinaio di
metri dobbiamo fermarci. Ci distendiamo sul fondo umido della fossa. Ed è proprio in una di queste
soste forzate che, all’improvviso, mi viene da pensare in questi termini: questa vita meravigliosamente
drammatica non va vissuta da spettatori distaccati, ma da attivi protagonisti, da giovani coscienti e
liberi. Siamo alla fine della guerra. Non gettiamo via questa esistenza di vent’anni. Abbiamo ancora
tanto da imparare e un’esperienza simile non si può dimenticare perché fa parte di
noi stessi, è dentro di noi. Il grande romanzo della vita è quello che ognuno di noi costruisce
ogni giorno. Impariamo intanto a far prevalere la ragione sullo spirito di parte. Ma che sto pensando?
Mi lascio andare in termini di sociologia a buon mercato?!”.
Subito abbandono questi progetti e riprendo possesso della realtà. Ci rimettiamo nella solita posizione
e scendiamo ancora. Intanto il sole, pur calante, continua a picchiare sulle nostre teste. E’ una
tipica serata valdelsana: limpida e riposante, ma c’è una leggere brezza da ovest (noi si
chiama marino) che stempera un po’ il caldo. Tom e Ruffo non erano mai stati in Valdelsa e, nel
vedere dall’alto quel paesaggio radioso che si apre ai loro occhi, lanciano delle sonore esclamazioni.
Sembrano estasiati da questo spettacolo della natura, mai visto nelle loro terre. Gigio se ne accorge
per primo ed esclama: “Ecco, vedete, questa è la nostra terra, una delle più belle
valli del mondo”. I due amici non riescono a distogliere lo sguardo dall’ubertosa campagna.
Ora siamo a cinquanta metri dalla statale e vediamo così molto da vicino i camion carichi di soldati
tedeschi che si ritirano a nord per appostarsi sulla riva destra dell’Arno e contrastare l’avanzata
degli Alleati. Le gambe ci tremano. Fin qui siamo sempre stati sprezzanti del pericolo, ma ora, in questi
momenti, abbiamo paura. Mille sono i pericoli e, non ultimo, lo spettro degli agguati a sorpresa che questa
quotidianità tumultuosa ci può tendere. In tutti i modi dobbiamo attraversare la strada
statale. Aspettiamo che la colonna dei camion sia passata, guardiamo a destra e a sinistra e….via!
Un balzo dalla fossa in fila indiana e in due secondi siamo dall’altra parte. Prendiamo la fossa
più vicina ed incominciamo a salire verso la collina opposta. Ad un certo punto sentiamo dei lamenti
provenire da un canneto. Ci mettiamo in guardia. Ci avviciniamo lentamente in silenzio, mentre quei lamenti
si fanno più nitidi. Siamo a dieci passi. Ad un mio cenno, spostiamo all’improvviso le canne
e che vediamo?: un giovane soldato tedesco per terra, senza giacca né elmo: sicuramente uno sbandato.
Ha la camicia tutta insanguinata ed anche al mano destra è ricoperta di sangue e terra. Il primo
impulso animalesco è di farlo fuori. Subito me ne accorgo, alzo la mano e urlo: “Fermi! Vogliamo
fare come Maramaldo quando a Gavinana uccise il già moribondo Francesco Ferrucci?”. Il soldato,
che nulla ha capito, sussurra con un filo di voce: “Non fare caput”. Io rispondo: “No,
non caput”. Egli si muove, cerca di alzare la testa, ma non vi riesce ha però la forza di
balbettare: “Africa, Russia, Italia……….”. Vuol dire altro, ma gli mancano
le forze. Uno di noi si porta l’indice della mano destra al naso, come per dirgli: zitto, ora. Gli
toglie la camicia. Che spettacolo! Quel torace villoso è inzuppato di sangue. Chissà da
quante ore egli si trova lì nascosto. Gigio prende dallo zaino un pacchetto di cotone idrofilo
e la bottiglietta dell’alcool. Lo ripuliamo fino alla cintola e solo allora possiamo vedere le sue
condizioni: una ferita d’arma da fuoco che inizia dalla mammella destra e termina su quella sinistra.
Sicuramente è il percorso della pallottola sparata chissà da chi. Al momento non ci poniamo
questa domanda perché comprendiamo che urge solo la nostra assistenza. Intanto l’emorragia
è visibilmente diminuita. Gli applichiamo dei lunghi cerotti sterili sulla ferita e poi, con tre
rotoli di garza, lo fasciamo intorno al petto. A questo punto un silenzio tombale cade su di noi. Il grande
interrogativo è: “ E ora che ne facciamo?”. Io prendo a dire: “Ma perché
lo volevamo uccidere questo povero cristo? Ha lasciato la sua famiglia, la sua Germania, ha combattuto
sulle roventi dune africane e nelle distese gelate russe. Poi l’anno spedito in Italia a contrastare
l’avanzata degli Alleati. Questi potrebbero essere i sui ultimi giorni di vita. Forse, da giovanissimo,
anche lui avrà applaudito Hitler, come molti di noi applaudimmo Mussolini, ma quando, a 19 anni,
gli dettero il fucile e gli dissero: vai e uccidi, probabilmente avrà pianto. Anche lui avrà
ucciso, ma non per sua volontà. Ora è qui. Lo potremmo far fuori subito e fuggire, metterci
al sicuro nei boschi. Ma sarebbe giusto? Che ne sarebbe poi degli abitanti della zona? Per la iniqua norma:
“Dieci italiani per un tedesco”, verrebbero uccisi degli innocenti. No, no, ragazzi, non ci
macchiamo di un crimine così infame. La Resistenza deve avere altri ideali: combattere si, ma a
viso aperto”. Tutti, ora, condividono pienamente. Io continuo: “Poiché abbiamo la fortuna
che l’ospedale civile è stato trasferito poco distante da qui in aperta campagna a causa
dei bombardamenti, portiamocelo subito”. Dallo sguardo dei compagni di avventura comprendo che essi
la ritengono un’azione pericolosa. E allora proseguo: ”Si è fatto buio. Tra un’ora
sarà notte fonda. Alex ed io andremo nella loggia di quella casa lassù. Prenderemo una scala.
La butteremo qui per terra, ci metteremo sopra delle canne e su quelle ce lo distenderemo. Poi, fra tutti,
lungo le fosse dei campi, lo porteremo davanti al portone dell’ospedale. Busseremo forte e ce la
daremo a gambe levate. Non ci dovrebbe vedere nessuno. Dopo pochi giorni riusciremo a sapere da qualche
amico infermiere se si è salvato.. Andiamo, svelti!” Nessuno si tira indietro, così
che l’azione si svolge secondo questo piano. Intanto, il tedesco ha intuito tutto ed appena la scala
tocca terra davanti al portone, allunga la mano destra e stringe quella di tutti noi, con la poca energia
che gli è rimasta. Riesce però a piangere, a noi prende un groppo alla gola. Di corsa riprendiamo,
soddisfatti, la via del ritorno, consapevoli della dura vita che ci attende. Dopo tre giorni sappiamo
che il soldato è salvo. Evviva! Oggi, nel descrivere questo episodio, mi accorgo che, quando ad
un certo punto della vita ci rendiamo maggiormente conto di non essere immortali, le emozioni si fanno
ancora più vive e intense, ma i nostri pensieri meno istintivi e più ponderati. Per cui,
a distanza di più di mezzo secolo, riconosco che quei giovani italiani contro i quali combattevamo,
erano stati attratti da una realtà sfarzosa, ricca di vessilli e monture che esaltavano. Comprendo
che per loro non era cosa facile condannare una quotidianità così ambiziosa e si schierarono
da quella parte, credendo così di dare un senso alla loro avventura esistenziale. Noi lottavamo
per la libertà e la democrazia, loro per l’uomo forte, intenzionato a lanciare l’Italia
nel novero delle nazioni potenti, con una società fondata sulla logica del dominio. Vincemmo noi,
però dobbiamo ancora combattere, ma con altre armi: quelle del dialogo, della convinzione, del
rispetto reciproco, del valore della pace, della solidarietà e dell’amore. Teniamo sempre
presente che è libero soltanto chi sente dentro di sé lo spirito della solidarietà
umana. E non ci saranno più conflitti.
Oh! Allora si che avremo vinto, davvero e insieme, la guerra di tutti, la più bella del mondo!
WALLIS LETTORI, terzo premio alla prima edizione del Premio letterario “Castelfiorentino”,
anno 1999
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