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Marco Marchi
La gioia di conoscerlo |
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Pensare che Mario Luzi se ne è andato addolora. Non c'è più, per me, un amico grandissimo che mi voleva bene, non c'è più, per me e per tutti, uno dei massimi poeti italiani del Novecento.
Firenze lo aveva festeggiato il 20 ottobre scorso. Tutti gli avevamo fatto festa, stringendoci attorno ai suoi novant'anni meravigliosi e meravigliosamente scampati a un precedente agguato della morte, salutando un suo splendido nuovo libro e, assieme, la sua nomina senatoriale: quasi un visibile suggello all'impegno pubblico, umano e societario, che un vero poeta non può non portare con sé.
Di quel giorno ricordo adesso un abbraccio in Palazzo Vecchio, che vissi come una sorta di affettuoso contraccambio a una sua dedica che aveva sibillinamente recitato, a significare l'intesa esistente fra noi al di là di quanto detto nel corso di tanti anni: "Senza parole".
Ora ad ammutolirci, a lasciarci quasi privi di parole è il fatto che Mario se ne è andato. E' un rammarico profondo, un vuoto singolarmente contrastante con la pienezza che mi ha sempre trasmesso ogni incontro con
lui: con i suoi versi non meno che con la sua persona, con la sua figura leggera e carismatica di poeta da riconoscere da lontano per strada, da guardare negli occhi e capire subito che sì, lui era davvero un poeta, un poeta come pochi ce ne sono.
Una gioia provata fino a pochi giorni fa, quando cenammo insieme ospiti di un'amica, quando Mario mi parlò del film di Faenza su Don Puglisi e io gli parlai di un corso universitario su Luzi e Dante.
A contrastare con la tristezza c'è anche, indelebile e resistente, l'appagamento rassicurante che ho sempre provato nel leggere la sua poesia, soprattutto quella più recente: una sensazione da testimoniare e da trasmettere ad altri, contagiante ed esaltante come quella che anche un poeta pessimista quale Leopardi, amatissimo da Luzi, sa, grazie alla poesia, comunicare.
"Mario, io ti leggo con gioia: con gioia anche quando affronti senza schermi il dramma dell'uomo, anche quando i tuoi versi affondano negli enigmi del dolore e della morte", gli dicevo. Lui immancabilmente sorrideva, facendo eco così, con quel sorriso e con quel silenzio, ai versi strepitosi che proprio della vita e della morte, del destino dell'uomo nel mondo, avevano fatto l'unico grande tema, dalla Barca fino agli ultimi versi.
Sì, per Mario Luzi la fine e il principio, la foce e la sorgente, l'"estremo" e il "principiante" coincidevano: "naturalmente". Erano la sostanza stessa, oltre che della sua fiducia di credente, della poetica "dottrina" avuta in dono e nel corso di un'intera esistenza, lunga e sempre messa a frutto, perfezionata.
Aveva una volta dichiarato, delineando un suo intimo autoritratto di poeta in cammino, di uomo obbediente alla chiamata dell'arte: "Del resto con il passare degli anni si è avverato anche questo: che ho avuto meno presenti il destino e l'esperienza individuale, mi è sembrata meno importante la salvezza della mia anima e più la sorte comune, più il poco decifrabile enigma del nostro tormentato procedere nel mondo".
La sua poesia altissima ha coronato proprio così, io credo, calandosi "nel magma" e attraversandolo, ricerche e attese. Mario era ancora curioso della vita, desideroso di trasformarsi e di lasciarsi trasformare. Nel corso dell'ultima serata passata insieme aveva espresso proprio questo concetto, questa attrazione sorgiva, aperta a una miriade di cose ancora da conoscere, da sperimentare, per le quali sperare.
Poi, al momento dei congedi, ai complimenti di chi gli diceva di averlo trovato proprio bene, Mario, ridimensionando amabilmente quel "proprio bene", rispose: "Si sfanga".
(in "La Nazione", 1 marzo 2005)
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